Quelli che ballavano erano visti come pazzi
da quelli che non sentivano la musica.
F. W. Nietzsche
Io ho avuto la fortuna di fare la televisione commerciale quando ancora in Italia non c’era una tv commerciale, e quindi quando ancora non era oggetto di critiche. In realtà, almeno agli inizi, veniva percepita come nuovo assoluto, come l’ultimo gadget tecnologico, l’iPhone 6s contro i primi cassoni portatili di Motorola: e cioè contro la retorica didattica del servizio pubblico. Sia per chi la faceva, sia per chi la guardava, rappresentava una specie di “botta di vita” con gli stretti orizzonti nazionali che si aprivano per collegarci “in differita con l’America”.
Comunque, dopo la sua prima affermazione, anche la televisione commerciale è entrata nel mirino di pubblico e di critica per la sua apparente mancanza di senso: non è elegante, non è pedagogica, non è esclusiva. Anzi, al contrario, tende ad abbassare progressivamente il gusto del pubblico. “Ma”, ribatteva allora chi la faceva, “noi ci atteniamo strettamente alle scelte del pubblico, non imponiamo nulla. Se il risultato è deludente, non è colpa nostra, ma del pubblico che la vuole così”. Una specie di parafrasi della famosa frase di Jessica Rabbit: la televisione generalista commerciale non è cattiva, è che la disegnano così. E l’ipotetico disegnatore naturalmente è il pubblico, che si esprime attraverso la rilevazione dell’audience. Anche la rilevazione dell’audience, così come la tv commerciale, ci appare oggi un meccanismo obsoleto e approssimativo. Agli inizi si faceva con telefonate, senza uno studio sociologico e statistico. Poi, con l’Auditel, sono arrivate le famiglie campione. Ebbene, quando l’Auditel arrivò, anch’esso fece, come la tv commerciale, la sua bella figura, perché rovesciava lo schema pedagogico della televisione come servizio pubblico, le sue scelte educative imposte forzatamente, a favore di una sorta di democrazia diretta del pubblico che sceglie sempre l’intrattenimento.
Il pubblico si comporta regolarmente come un bambino. Vuoi la verdura o la nutella? Fare i compiti o giocare?
Come tutti sanno, in regime Auditel, la programmazione si costruisce sulla base dei risultati positivi o negativi della programmazione precedente: in definitiva sulla base di quello che il pubblico vuole. E il pubblico si comporta regolarmente come un bambino: “vuoi la verdura o la nutella?”, “vuoi fare i compiti o giocare?”, “vuoi istruirti o divertirti?”. Oggi che la pubblicità su Internet ci permette di controllare gli utenti uno a uno in base a scelte reali, anche l’Auditel ci appare avviato sul viale del tramonto. Eppure tutta la mia storia di programmatore è stato un corpo a corpo con l’Auditel. Vuoi fare cose nuove, vuoi fare cose belle, però puoi farlo solo a partire dall’Auditel cioè con un seguito di pubblico.
Tutte le mattine l’Auditel è lì, come un listino di borsa, e ti provoca la stessa scarica d’adrenalina, se i tuoi titoli, pardon, i tuoi programmi, salgono o scendono nel grafico che quantifica il successo di audience. Fare il nuovo o il bello per pochi, ti sembra improvvisamente facile. Il virtuosismo consiste nel fare il bello per tutti, mettere insieme il boia e l’impiccato, la botte piena e la moglie ubriaca. Ed ecco che anche i programmi brutti ti sembrano belli se letti in chiave di audience. Perché per fare audience ci vuole mestiere e non è così semplice come appare. Pensiamo a un bel quadro: non è bello perché ha un soggetto gradevole. È bello se il pittore ha tecnica e stile. E soprattutto mestiere. Così anche un contenuto banale, cucinato in chiave di audience, rivela lo stesso virtuosismo di un assolo musicale. Sarà per questo che, ancora oggi, anche dopo l’esperienza della televisione tematica, riesco a vedere con interesse una televisione commerciale priva di contenuti e di idee, purchè l’audience funzioni.
La riprova l’ho avuta recentemente con le due settimane in cui l’audience è stata sospesa. Non so se abbia fatto a tutti lo stesso effetto. Forse molti non hanno neppure saputo la notizia, e dubito che siano in molti a valutare l’audience potenziale dei programmi. Ma per me si è trattato di un’esperienza fortemente straniante. Come nell’aforisma di Nietzsche: vedere la gente ballare senza sentire la musica. Per la prima volta, le trasmissioni mi apparivano inutili, insulse, a tratti grottesche. Senza l’audience che giustificasse tutto (il becero, il kitsch, il camp) i programmi non avevano senso. Senso che hanno magicamente recuperato quando, dopo la brusca interruzione, l’audience è ritornata a stabilire i suoi ritmi e a fare da colonna sonora del nostro vissuto quotidiano.