Non facciamoci fo**ere dal libro sul porno di Lilli Gruber | Rolling Stone Italia
Gang bang

Non facciamoci fo**ere dal libro sul porno di Lilli Gruber

L’ultimo saggio della giornalista è un coacervo di pregiudizi moralisti senza nessuna bibliografia. Ma ha un pregio: analizza il contesto economico in cui operano le grandi aziende del settore

Non facciamoci fo**ere dal libro sul porno di Lilli Gruber

Foto: Stefania D'Alessandro/Getty Images; a destra la copertina del libro di Lilli Gruber edito da Rizzoli

Quando sono venuta a sapere che Lilli Gruber ha scritto un saggio sulla pornografia (Non farti fottere, Rizzoli, 2024) non ho potuto fare a meno di leggerlo. Abituata a sentirla occuparsi di politica interna ed estera, ero molto curiosa di sapere cosa ne pensasse.

In principio era la violenza
Il testo comincia con la menzione dei fatti di Palermo e Caivano e cita una dichiarazione del parroco Maurizio Praticiello, il quale afferma che «la pornografia è ormai una vera emergenza». Non il degrado sociale, politico ed economico, non il fatto che non si parli apertamente di sesso e delle sue rappresentazioni, bensì la pornografia.
Non mi aspetto posizioni diverse da una persona di Chiesa, ma che queste vengano fatte proprie da una giornalista del calibro di Gruber mi lascia perplessa – seppure non stupita. Riferendosi agli stupri di gruppo della scorsa estate, afferma «la modalità della “gang bang” lo rende ancora più terrificante». Per me è già allarme rosso. Nel caso non lo sappiate, la gang bang consta in un gruppo di persone che si avvicendano per fare sesso con un’altra. A seconda della scena può essere solo sesso orale, solo penetrativo genitale o solo manuale, mentre altre volte alcune o tutte le suddette opzioni. Sono note e diffuse le gang bang composte da un gruppo di uomini e una donna, ma nel porno gay maschile – che ve lo dico a fare?! – sono tutti uomini. Nel cosiddetto porno lesbico sono più frequenti le orge, di gang bang tutte al femminile pare non esservi traccia.

La pericolosità di questo accostamento sta nel fatto che la violenza viene imposta e consiste nella sovradeterminazione della volontà altrui da parte di chi la agisce, mentre le gang bang pornografiche sono decise preventivamente col consenso delle persone che vi prendono parte, le quali – secondo le indicazioni di chi produce e dirige le scene – concordano su come realizzarle (quante persone coinvolgere, quali, che pratiche inscenare, ecc.). Seppure alcune rappresentazioni di gang bang siano molto veementi e facciano presumere la sopraffazione della persona che riceve, questo non deve lasciare intendere un abuso: è tutto pensato ai fini della messa in scena. Va inoltre ricordato che ciò che potrebbe risultare spiacevole agli occhi di chi guarda, non è detto che lo sia per chi lo fa.

Parental control
Buona parte del saggio si concentra e ribadisce la pervasività della pornografia nelle nostre vite, in particolare durante l’infanzia e l’adolescenza. Gruber non lesina nel ripetere che ormai l’età in cui ci si affaccia al porno è molto bassa (quella media è 12 anni), tra ricerca volontaria per curiosità e comparsa di pop-up inaspettati che conducono a siti di dubbia provenienza. «Immaginiamo la scena», ci invita Lilli Gruber. «Un dodicenne davanti al computer, tablet o smartphone, che osserva un primo piano di organi genitali in azione, con l’accompagnamento di gemiti, insulti, magari anche violenza. In dieci minuti un’“educazione sessuale” che una volta richiedeva decisamente più tempo». Per la giornalista sembra che il porno sia costellato solo da scene di violenza o quelle che lei reputa tali. Un sesso enfatizzato (tipico del porno, altrimenti non lo guarderemmo: è fiction, signore e signori!) con gestualità ed espressioni vocali esasperate è puro teatro, né più né meno. Chi performa lo fa in favore di camera per compiacere lo sguardo di chi guarda, per sedurre e invogliare, si spera che lo faccia anche per piacere personale e che ne tragga da ciò che fa, ma – come mi disse Romeo Mancini, talento pornografico nostrano di base a L.A. – «il porno è un lavoro, non è scopare per piacere. Il piacere dei performer non è una prerogativa. Non andiamo sul set per godere, per raggiungere l’orgasmo o farlo raggiungere al partner. L’unico presupposto, dal mio punto di vista, è far godere chi guarda».

A oggi non ci sono dati che determinano l’aumento di violenze, soprattutto di genere, come i femminicidi, come conseguenza della visione anche consueta e intensa di porno. Non sono stati evidenziati né rapporti di causalità né tantomeno correlazioni, ma questo sembra non convincere la nostra indomita. È ormai risaputo che le persone molto giovani come preadolescenti e adolescenti, che non hanno né trovano interlocutrici e interlocutori della propria cerchia familiare, educativa e sociale, si rivolgano alla pornografia per vedere in cosa consiste il sesso, se però scambiano una performance col sesso che potrebbero fare nella propria vita, forse il problema non riguarda neppure l’educazione sessuale in sé, ma il fatto che non hanno ricevuto indicazioni per distinguere la realtà dalla finzione. L’esempio più utilizzato è quello che accosta film d’azione alla realtà. Per citare un celebre intervento di Jameela Jamil di alcuni anni fa: «I believe that learning sex from porn is like learning how to drive by watching The Fast and The Furious: a fucking terrible idea». Pure Siffredi, tra un melodramma e l’altro (preferisco il Rocco nazionale quando spinge piuttosto che quando si lascia andare a melliflui piagnistei a favore di camera: sorry, not sorry), ha affermato che non è il porno ad alimentare la violenza ma il contrario, come riporta anche la stessa Gruber ammettendo il ribaltamento delle proprie argomentazioni e mi stupisce che una professionista come lei, acuta e intelligente, non lo capisca. Per tutto il volume, nonostante riporti le voci che mettono in dubbio le sue posizioni, sembra ostinata a criticare negativamente la pornografia, raccontandola in modo parziale e fazioso, privo di sfaccettature.

Avrei trovato più significativo riflettere sul fatto che persone sempre più piccole hanno accesso a dispositivi elettronici sempre più presto. Genitori particolarmente impegnati e/o particolarmente permissivi consegnano alla prole smartphone o tablet rincuorati dal parental control, aggirabile senza troppa fatica dai nativi digitali. L’ossessione per il controllo dei propri figli è il disvelamento dell’incapacità di volerci parlare e starli ad ascoltare per davvero, perché educare è faticoso e non ci si vuole accollare questo onere. Mio padre mi ha cresciuto con un mantra: «Se gli altri si buttano dalla finestra, ti butti pure tu?!». Era il suo modo per invitarmi a pensare con la mia testa e non adeguarmi. Non potendo avere quello che desideravo, mi sentivo una sfigata. Non voglio dire che l’esempio di mio padre sia universalmente significativo, ma per me è molto utile ragionare sul fatto che un genitore deve assumere anche posizioni scomode e non compiacenti, col rischio di scontentare i propri figli. Mi aspetto che una persona adulta abbia una visione più ampia della vita e riesca a vedere sul lungo termine alcune implicazioni. Porrei l’accento sul fatto che è impensabile negare la tecnologia, e internet in particolare, alle nuove generazioni, peraltro è una cosa che non auspico. Il punto è che questo passaggio dovrebbe essere supervisionato limitando le persone e non i contenuti. Non possiamo delegare ad aziende private, dobbiamo muoverci come società civile e magari sollecitare un intervento delle istituzioni (mentre lo scrivo già mi pento, ma tant’è).

San D’Agostino, salvaci tu
Uno dei migliori passaggi del volume è, dal mio punto di vista, quello in cui la giornalista trentina riporta la chiacchierata con Roberto D’Agostino, che si esprime senza mezzi termini e non teme di definire Gruber stessa una bacchettona. D’Agostino sostiene che il porno abbia salvato la salute mentale dell’essere umano: «La pornografia è una vitamina che esalta il desiderio. La vera perversione è la routine, l’abbrutimento nel lavoro quotidiano. E allora, dall’antichità a oggi, si crea un mondo parallelo», sentenzia l’opinionista. Come dargli torto? Mentre Gruber appare scettica e preoccupata dai messaggi secondo lei prevalentemente veicolati dal porno, non sembra porsi lo stesso problema riguardo le innumerevoli immagini di violenza verbale e fisica trasmesse alla tv dai telegiornali: mi domando se i morti ammazzati (realmente) che ci propinano a ogni edizione siano meno traumatici della rappresentazione del sesso (seppure non simulato) reperito in rete.

È ancora D’Agostino a contrastare la visione della giornalista di La7 secondo cui la pornografia diffonde messaggi tossici che alimentano femminicidi e violenze. Sono del parere che se il porno fosse davvero così potente e persuasivo, la nostra cultura non sarebbe ancora sotto l’egida di monoteismi sessuofobici, ma sarebbe invece laica e lasciva. D’Agostino afferma che le nuove generazioni non sono così interessate alle rappresentazioni del sesso, ciò sembra essere confermato da alcune ricerche. Da diversi anni inoltre si parla di regressione sessuale della Gen Z. Le preoccupazioni sembrano quindi tutte degli adulti.

Il porno è gratuito: il prodotto sei tu
Le mie remore quando mi sono approcciata al libro di Gruber sono state confermate praticamente lungo tutta la lettura, tutto sommato scorrevole. Eppure riconosco un pregio all’opera, ossia quello di avere un capitolo (brevissimo) dedicato alle multinazionali che gestiscono colossi come Pornhub e Xvideos. Solitamente le critiche mosse a questi siti, in particolare al primo, sono quelle che riguardano la pubblicazione non consensuale, la condivisione di video di abusi e addirittura la cosiddetta pedopornografia (definizione di per sé problematica perché la pornografia sarebbe quella prodotta da adulti consenzienti per adulti consenzienti). Lilli Gruber ricorre a questi espedienti narrativi nella sua disamina, ma offre un interessante spaccato sui colossi che dominano il settore del quale noi usufruiamo apparentemente a costo zero. Dovrebbe essere ormai risaputo che ciò che non paghiamo con moneta sonante viene pagato attraverso la cessione di informazioni personali, le compagnie del porno questo lo sanno benissimo e i dati di cui dispongono sono addirittura più variegati e precisi di quelli di Google, il che è tutto dire. Al netto della faciloneria con la quale accettiamo le condizioni e i termini d’uso dei siti che visitiamo, va detto che il mistero reale consiste nel sapere come vengono aggregati i dati, se (anche se di fatto è una certezza) e come vengono ceduti ad aziende terze e di conseguenza come e per quali scopi queste ultime li utilizzano.

Gruber pone giustamente l’attenzione sui numeri mancanti: «Difficile quantificare i guadagni in un mondo in cui il rigore contabile non è la preoccupazione principale». E si domanda da dove derivino quegli introiti se «il porno è – o sembra – in gran parte gratuito». Finalmente vedo la problematizzazione dell’industria pornografica non tanto per i suoi caratteri narrativi (moralizzati), ma per quelli economici e sociali. Gruber la contestualizza nella sua epoca, quella della cosiddetta gig economy. Se è vero che nel porno vi è sfruttamento, questo è dovuto al fatto che siamo una società globalizzata fondata sul consumismo e quindi sul depauperamento. La produzione di massa (il cosiddetto mainstream) si basa su questo e la produzione pornografica non fa eccezione. Chi ci prova fa molta fatica, fra piattaforme sulle quali destreggiarsi (c’è un capitolo intero dedicato a OnlyFans) e commissioni elevate, per non parlare del fatto che chi fa lavoro sessuale non ha alcuna tutela economica e sociale, persone di serie B che soffrono oltretutto di un profondo stigma sociale.

Nota bene: non ci sono note
Un aspetto del volume che mi ha lasciato di stucco è che non vi sono note, bibliografia e sitografia. La giornalista menziona alcuni testi e ricerche ma sempre in modo approssimativo. Un esempio lampante: «Uno degli studi più recenti, condotto negli Stati Uniti nel 2022, rivela che più di tre quarti dei minorenni intervistati (maschi e femmine) sono consumatori di pornografia online». Come si intitola lo studio? Chi sono le persone che lo hanno condotto e per conto di chi? Su quale pubblicazione è stato divulgato? Reputo questo aspetto un’enorme pecca che non consente a chi, come me, desidera approfondire e consultare personalmente le fonti utilizzate per trarre le proprie conclusioni. E mentre Gruber ci invita a non farci fottere dal porno, invito personalmente tutte le persone che avranno letto questo articolo a fare altrettanto col suo libro.

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