La prima cosa che si nota entrando in una fabbrica di dischi in vinile, a parte il frastuono e il viavai di operai al lavoro, è l’odore. Non è propriamente quello che chiameresti profumo, e anzi la nota plasticata sulle prime rischia quasi di nauseare, ma dopo qualche minuto tutto passa. O per lo meno, l’attenzione sensoriale viene ben presto catturata dalla visione di un centinaio di grammi di PVC che vengono schiacciati fino a diventare una cosa così perfetta come un disco.
L’idea della visita alla fabbrica, nello specifico la Europress Vinyl di Paullo (MI), la si deve ai ragazzi di Amazon Italia, che dal 23 al 29 ottobre saranno belli impegnati nella Music Vinyl Week. Sette giorni esatti di promozioni e di reissue consistenti, una su tutte Nord Sud Ovest Est degli 883 in vinile rosso. Roba da fare carte false per averlo.
Già, ma come si fa ad arrivare a un prodotto così incredibile? Un disco di mera plastica, la stessa dei tubi che si usano per innaffiare le peonie, ma con microscopici solchi che tradotti da una puntina, un amplificatore e uno speaker diventano, ehm, The Dark Side Of The Moon.
Il processo di creazione di un vinile in sé è abbastanza automatico e veloce. Se ne occupano pesanti macchine, che nel caso della fabbrichetta alle porte di Milano sono tre, di cui due d’epoca (circa anni Settanta) e una nuova di pacca (foto in cima), costata 150mila euro a Michele, il proprietario. In appena venti secondi, i macchinari fondono i granuli di PVC a 140 gradi, li trasformano in dischetti (ricordano quelli da hockey), contemporaneamente li pressano e scaldano ulteriormente a 180 gradi e raffreddano il neonato disco. Poi una lama rimuove il PVC in eccesso ai bordi et voilà, lo si potrebbe già ascoltare.
Per chi come il signor Gagliardi fa questo lavoro (da oltre 30 anni, tra l’altro), quello di ottobre/novembre è il periodo di massimo lavoro. Le etichette discografiche si preparano al boom di vendite natalizie, quindi non è difficile per Michele e i suoi operai arrivare a sfornare anche 5mila vinili al giorno. «Stamattina ho rifiutato un ordine di 20mila dischi» racconta Michele. «Ci vorrebbero altre 10 macchine, ma cosa me ne faccio poi a gennaio?» Una produzione come Michele non vedeva da anni. La sua precedente azienda, ha stampato vinili fino al 2010, poi ha chiuso come molte altre in un settore in crisi. È sopravvissuta fino a che anche i DJ delle discoteche non hanno preferito, con qualche eccezione, le chiavette USB. Poi però il vinile è tornato di moda, e dopo neanche 4 anni Michele—con una mossa coraggiosa, certo, perché nessuno poteva assicuragli che non fosse una moda passeggera—ha riaperto i battenti, in un altro stabilimento e con un altro nome.
Detta così però sembrerebbe che il lavoro di Michele e i suoi sia di arrivare in fabbrica alla mattina, accendere le macchine e lasciare che facciano da sole il lavoro sporco—nello stabilimento, tra l’altro vengono prodotte anche le copertine dei dischi e le pellicole che li avvolgono da nuovi. C’è un elemento artigianale a monte nella catena di produzione, prima ancora che le macchine vengano azionate, che per forza deve essere affidato alle mani di un esperto, umano. Ogni macchina infatti imprime sul PVC bollente lo la forma di quello che viene chiamato stampatore, che ogni centinaio di dischi stampati va sostituito per via dell’usura (ne risentirebbe la qualità del suono nel disco). Così, partendo da una matrice, cioè la mamma di tutti i dischi, si ottiene un negativo in argento e da lì un positivo, cioè lo stampatore. «Se sbaglio io ogni disco che uscirà dalla macchina sarà da buttare» racconta l’addetto alle matrici. «Vaglielo a spiegare poi alla fidanzata quando a Natale le regali un disco che non si può sentire.»