Alle donne piace perché è un duro, ed è sexy. Agli uomini, anche se non lo dicono, perché ti dà l’idea che potresti condividerci una birra o affidargli le confidenze piú intime. Lui è stato L’uomo che ama, fragilissimo e sensibile, ma anche il Libanese. Fa i kolossal americani e ora interpreta e co-produce l’esordio indipendente di Michele Alhaique, attore, come lui, ecelettico e pieno di talento, ora dietro la macchina da presa in Senza nessuna pietà. Un thriller d’amore tra il rude e taciturno Mimmo e l’estroversa e bellissima Tania, che di romanzesco ha poco e di criminale il giusto.
Come hai incontrato questa storia tenera e bastarda?
Con Michele ci conosciamo da quando interpretammo due fratelli per Maria Sole Tognazzi. Mi aveva parlato allora della sua passione per la regia. Mi fece vedere i suoi corti, Chi decide cosa e Il torneo, che andò benissimo e girò molti festival. Ero contento per lui. Poi un giorno mi ha mandato la sceneggiatura di Senza nessuna pietà. Mi dimenticherò difficilmente il momento: era una pausa sul set di Rush, ero sul camper, cominciai a leggerlo subito. Mi conquistò immediatamente l’intreccio, i personaggi e, soprattutto, il modo di raccontare questa storia e un certo ambiente molto vicino alla realtà, vivo, non sterotipicamente gangsteristico. Dovettero venirmi a chiamare per la scena, avevo perso il senso del tempo. Era un ottimo segnale per capire quanto mi avesse preso quello che leggevo. E allora cercai di capire subito quale fosse la situazione. Il progetto di Senza nessuna pietà era all’inizio e decisi di coinvolgermi a pieno: sono salito sulla barca prima che finissero di costruirla e ho deciso di essere tra i produttori, rinunciando completamente alla mia paga.
Con la tua notorietà e la tua carriera, chi te lo fa fare?
Perché è giusto aiutare chi ha talento e voglia di rischiare. Perché c’è bisogno di unirsi, di fare qualcosa di buono insieme. Perché è bello collaborare in qualcosa in cui credi tanto, con una struttura narrativa che invece di personaggi parla di individui, in cui lo spettatore è necessario a riempire il film. Basta come spiegazione?
Il fatto di essere anche produttore ha influito nella lavorazione?
In alcune cose materiali: l’attore vorrebbe sempre fare un ciak in piú, mentre da produttore ti trattieni. E poi i pitch con i finanziatori, bussare alla porta di chi può aiutarti. Ma questo rimane il film di Michele, io ho influito nella parte artistica, al massimo, nel chiedere di tagliare alcune scene del mio personaggio, il che per un attore di solito è assurdo. O con opinioni, ma solo se richieste.
Sembri cambiato. Come se avessi dato un’accelerazione forte alla tua voglia di rischiare, di cambiare le cose.
Bisogna muovere le acque, creare lavoro, moltiplicare le possibilità, ascoltare i cambiamenti del pubblico: se ne hai l’opportunità e non lo fai, in questo momento storico, hai delle precise responsabilità. Per me è importante che un 34enne esordisca con un bel film, e non con la solita commedia. Poi, certo, pretendiamo anche nuove leggi dalla politica, un cambiamento di Sistema, ma dobbiamo iniziare il cambiamento noi che ci siamo dentro.
Non ho pensato a un modello, a una mia esperienza personale, ho lottato contro le mie abitudini mentali e mi sono abbandonato nelle braccia di Mimmo
Sarà pure innamorato il tuo picchiatore in Senza nessuna pietà, ma non vorrei incontrarlo di notte. Ti è costato molto ingrassare?
Non ho trovato doloroso prendere quei 20 chili. Ho toccato quota 100 per poi attestarmi a 98. E confesso che cinque mi son rimasti ancora addosso. Per fortuna mia moglie Anna non protesta, anzi, troviamo che questa mole mi somigli di piú. Un cambiamento di peso di questo tipo cambia il tuo respiro, il senso del tempo, la tua capacità di economizzare le energie, la reazione degli altri alla tua presenza. Ma va detto anche che il cibo è un potente antidepressivo, ti dà calma. C’è tanto di questo nel personaggio, anche l’insensata ossessione per la bellezza che abbiamo. Agli occhi di Mimmo e Tania, e a quelli dello spettatore, loro diventano reciprocamente belli per quello che sono. Non per ciò che mostrano.
Cosa ti ha attratto di Mimmo?
Lo stesso che mi ha fatto amare Open di Agassi: la maledizione del talento. Quest’uomo si porta dietro un corpo che lo mette a disagio, una forza che forse non ha mai voluto esercitare, è un supereroe che soffre per il suo stesso superpotere.
La maledizione del talento. Ne sei stato colpito anche tu?
Ti capita spesso, quando magari senti di aver prostituito qualcosa di tuo, di aver rubato un’emozione o un sentimento alla tua vita per un’inquadratura o un momento sul palcoscenico. E allora ti domandi se ha senso ciò che fai. Come quando non riesci a sbloccarti emotivamente per fare una scena e ti rifugi nel mestiere. E allora ti senti colpaa quel pezzo di vetro che è la macchina da presa ti fa sentire in colpa… Perché è una lente che funziona anche al contrario.
Qui ti è successo?
No, per la prima volta ho visto qualcosa di diverso. Ci sono due o tre momenti, in particolare, in cui mi sono stupito, ero disorientato. Non ho pensato a un modello, a una mia esperienza personale, ho lottato contro le mie abitudini mentali e mi sono abbandonato nelle braccia di Mimmo.
Qui il regista non cerca solo Favino come di solito facevano i compagni con Maradona. Ti senti un po’ soffocato da quel «però Favino è sempre bravo» che ormai è un mantra?
Ma no, lasciamolo dire a tutti! Scherzi a parte, la struttura narrativa diversa vuol dire che c’è una storia e questo rende il lavoro dell’attore apparentemente piú profondo, perché deve fare e non può fermarsi a dire ciò che prova, rifugiandosi nella performance o nel virtuosismo. Il punto è che la tua faccia, specialmente se le cose vanno bene, crea familiarità, routine e nessuno rischia su di te, ti vogliono per quello che sei già stato. Devi combattere questa tendenza. Ecco perché vedo il ruolo del protagonista anche come una spalla di tutti gli altri: se sei bravo solo tu, hai sbagliato qualcosa.
Perché ci hai messo tanto a tornare al cinema?
Mi sono fermato due anni. Dopo quattro film usciti in due mesi e mezzo, nel 2012, lo dovevo per rispetto al pubblico e anche a me stesso. Dovevo capire dov’ero, come attore, e dovevo anche sfuggire a certe logiche di mercato. Non è stata una cosa calcolata, c’erano anche mie esigenze interiori: una figlia, lo spettacolo teatrale. E poi questo lavoro puoi farlo solo se a volte ti fermi. E ti ripensi.
Non ci credo. Secondo me, in questa lunga pausa, hai scritto la sceneggiatura della tua prima regia…
Ho scritto l’inizio di 840 storie. Ma è vero, ce n’è una che mi ronza in testa. Se capiterà, vuol dire che si doveva fare. Altrimenti pazienza. Non ti dico niente, peró. Ne parliamo quando – e soprattutto se – prenderà corpo.