Sembra un risultato alchemico, un esperimento di laboratorio riuscito bene. Pharrell Williams è un manifesto politico. Che abbia il berretto di lana, i bermuda strappati, la maglietta a righe e la collana di Chanel, la tuta Adidas o lo smoking è sempre impeccabile, fresco e suadente. Distante e inafferrabile quanto basta.
Quel gioco a nascondino perenne con chi vorrebbe applicargli un’etichetta e mettersi in pace la coscienza dopo averlo inquadrato e catalogato, è la sua autenticità, il suo tratto distintivo e ciò che lo fa diventare una figura tanto simbolica e significativa. Sfuggente e mobile come il mercurio, è un perfetto rappresentante di quella che Zigmunt Bauman definisce la società liquida. Travolgente come un’onda marina, che si insinua tra gli interstizi più inarrivabili degli scogli, cambia forma, ma mai la sostanza, sta nel flusso, è il flusso stesso.
La sua comprensione del mondo deriva da una combinazione fortunata di sensibilità ed esperienze, dalla vita sulla strada, dalla frequentezione delle periferie e dei sentimenti, è la reazione positiva alla complessità. Una reazione, una risposta che assume un valore universale e prende i caratteri di una rivoluzione silenziosa e diromepente. In uno scenario nel quale l’affermazione della propria identità passa attraverso l’imposizione di un’immagine fissa, di una maschera ripetuta all’infinito, Pharrell Williams rappresenta il punto di rottura di uno schema, l’elemento che sovverte l’ordine e indica una nuova direzione.
Nell’era del non giudizio, del tutto equivale a tutto, si raggiugono momenti di strumentalizzazione sociale ed emotiva intollerabili che il consenso generale permette e spesso premia. Per semplificare, senza gioia né indignazione, per pigrizia. La vaghezza e la mancanza di gravità in cui siamo immersi non ha nulla a che fare con la lievità, è che ognuno vive nel cuore di un cristallo, prendendo a prestito un’ espressione di Gombrowicz.
Quel che Pharrell, inconsapevolmente o no, ha capito, è che l’unico racconto possibile è costruito come un patchwork che mette insieme frammenti di discorsi a un party affollato. Un cut-up di Burroughs in versione post post moderna. L’eccedenza di comunicazione ci ha condotti esattamente nell’occhio di un ciclone, nell’era della sconnessione, del non-collegamento, dove segni e parole si incrociano, si scontrano, si sovrappongono, si affiancano e si separano, producendo molta confusione. Bene, lui, Pharrel lo ha trasformato in un metodo, il proprio, ha sistematizzato il chaos, dimostrando che la polverizzazione dell’identità, porta al successo.
Strategia? Cinismo applicato? Visione? Ci sono nella sua biografia segnali che ci fanno pensare che una sorta di onestà lo guidi, e che lui segua semplicemente la corrente. Perfino quel suo senso di gratitudine che esprime spesso con gesti e parole, ci fa credere che la sua propensione endemica a seguire fisiologicamente gli accadimenti, cogliendone sempre l’aspetto migliore e trasformandoli in occasioni, sia pura saggezza che viene da lontano. Perché, la sua esistenza, che ricorda una freccia lanciata che attraversa il cielo puntando verso un futuro colorato, è un misto di concretezza e immaterialità, di nostalgia e di speranza. E il suo cappello preferito, quel buffalo hat proposto da Vivien Westwood per l’inverno 82,/83 nella collezione “Nostalgia of Mud” – tra i rari elementi fissi della sua iconografia – sembra un trait d’union tra cielo e terra, tra la sua vocazione alla smaterializzazione e quel desiderio di occupare la scena. Di esserci, semplicemente.
Renata Molho: osservatrice del costume e degli stili della rappresentazione. Da una trentina di anni analizza il linguaggio e i non detti della moda. Condivide l’avventura di “Rolling Stone”.