Prima considerazione: quanta mona. Non pensate male. Siamo qui per fare informazione, e questa è livida cronaca. Il concerto di Pharrell Williams a Milano già di suo avrebbe attirato un tipo di pubblico non precisamente indie, questo è pacifico. Ma svolgendosi proprio nella Settimana della Moda, è sembrato una sua involontaria appendice.
Seconda considerazione: in settimana è stata diffusa la notizia di sette ragazzi iraniani incarcerati per aver messo su YouTube un video in cui ballavano Happy. Le ragazze erano copertissime, ma fatalmente senza velo. I ragazzi avevano le barbe e gli occhialoni, manco frequentassero i Navigli (o Roma Nord, stando a I Cani). Comunque, dopo alcuni giorni di reclusione, la pena – 91 frustate – è stata sospesa; gliela commineranno nel caso dovessero infrangere di nuovo la legge in qualsiasi modo. È stato considerato un gesto di ravvedimento il fatto che siano andati in televisione a mostrarsi pentiti, e abbiano accusato il regista di averli ingannati. Il settimo ragazzo, per l’appunto quello che li riprendeva, si è fatto una settimana in più di carcere.
Più avanti vedremo come queste due considerazioni costituiscono una specie di asse d’equilibrio, sul quale muoversi con goffa cautela per valutare la serata. Ma ora addentriamoci nel racconto di un concerto iniziato con corposo e annunciato ritardo, per dare tempo al protagonista di presentarsi a Verona, inaugurare il prestigioso Intimissimi On Ice in cambio di una cassapanca piena di pepite d’oro, e poi catafiondarsi a Milano (chi dice in elicottero, chi dice con volo privato) per lo show.
Prima di lui si sono comodamente esibiti, davanti a un Forum semivuoto, Cris Cab e Foxes. Poi, alle 22.41 si sono spente le luci, e si è acceso un intero MediaWorld: tutti a instagrammare la sua silhouette su sfondo nero, con l’inevitabile cappellino, invero molto diffuso anche tra platea e tribune. Williams senza tante fanfare ha iniziato a macinare pezzi, uno via l’altro, con percepibile velocità, accorciando anche un po’ la durata dei brani per compensare il ritardo e chiudere comunque entro mezzanotte: alcuni pezzi sono durati letteralmente due minuti.
Però sulla ricchezza della scaletta niente da obiettare, anche perché (un po’ come ha fatto Nile Rodgers proprio la sera prima, sempre a Milano) un concerto di Pharrell propone anche brani che non fanno strettamente parte della sua discografia ma che lui può rivendicare in vari modi come suoi. Collaborazioni e featuring gli permettono di aggiungere ai brani della (ristrettissima) carriera solista e a quelli con Neptunes e N.E.R.D., anche le fatidiche Blurred lines di Robin Thicke e Drop it like it’s hot di Snoop Dogg, Get Lucky dei Daft Punk o Hollaback Girl di Gwen Stefani. Durante la quale, va detto, Pharrell è sembrato quasi ospite del proprio stesso concerto: a cantare sono state le coriste e la voce campionata della Stefani.
E non è stato nemmeno il momento più straniante. Dopo 20 minuti di esibizione, il cantante è sparito dietro le quinte, lasciando che le sue ballerine (cinque. Contro una band di quattro musicisti) si prendessero il palco intrattenendo il pubblico con in sottofondo ulteriori successi a lui riconducibili (tipo Milkshake di Kelis, scritta quando Williams e Chad Hugo formavano i Neptunes).
Poi è ricomparso, senza cappello ma bandanato. Una dichiarazione d’intenti. Di lì a poco è infatti partito in una rivisitazione del periodo N.E.R.D., molto secca ed energica, ma che dopo il leggerissimo funky della prima parte faceva un effetto curioso. Anche perché poi si è ritornati al mood precedente, alle canzoni in odore di Justin Timberlake. Anche il brano più “Princesco” dell’album G I R L, cioè It girl – tra l’altro quasi sempre scartata nelle precedenti date del tour – è andato via liscio, senza graffi.
E qui vale la pena inserire le sensazioni sul Pharrell intrattenitore. Ovvero: non precisamente un animale da palcoscenico. Nonostante il repertorio pazzesco che può sfoggiare, non si mette a sollevare la platea, anche se è sceso dal palco per un paio di minuti, avvicinandosi al pubblico. Molto spesso si è rivolto, ineffabilmente, alle donne di Milano, e questo era preventivato. Però – giusto per non citare sempre dei vecchiardi – il Bruno Mars visto al Superbowl ha un senso dello spettacolo molto superiore. Pharrell, invece, nel maggiore momento di successo della sua vita, sembra pigramente compiaciuto, tendenzialmente svagato. Okay, forse siamo troppo severi. Però ci chiediamo quanta gente presente stasera tornerebbe a vederlo l’anno prossimo… Ci sbilanciamo: prendendo a prestito la più amabilmente trita delle espressioni cinefile, “Era meglio il video”.
Il che non vuol dire che la gente non fosse contenta, eh. Era felice, happy!, di essere a uno dei concerti – evento dell’anno – che diamine, Rolling Stone l’ha pure messo in copertina, ripetiamo, Rolling Stone! – era felice, happy!, di potersi fare tutti i selfie del mondo, di taggarlo e hashtaggarlo, e alcuni sono stati felici, happy!, di ballare. Per quanto lo consentisse la mano che sollevava lo smartphone.
Alle 23.41, fine, il palco si è svuotato, ciao. Un’ora precisa di musica. Anche se era ovvio aspettarsi i bis. E infatti, ecco il ritorno, ed ecco una trascinante Lose yourself to dance (con cui normalmente apriva i concerti), una breve Gust of wind e poi, dopo un invito a essere tutti positivi, orsù – eccola. Happy. Il momento più spettacolare e oggettivamente della serata, con i coriandoli e i sorrisi cartooneschi dal megaschermo. Tanto da sperare che la facesse durare 24 ore come nel clip imitato, giusto per tornare all’inizio di questo pezzo, dai giovani iraniani. E russi. E siriani. E sloveni. E palestinesi. E bolognesi. E yemeniti. E sassaresi. E cinesi. E palermitani.
Ecco, allora: torniamo a quella faccenda. Proviamo a quagliare le due considerazioni di inizio articolo. Mentre alle 23.59 gli spettatori, poco o nulla sudati, avevano già svuotato fulminei le tribune, si faceva strada in chi scrive l’ipotesi che Pharrell abbia la testa troppo piccola per il suo cappello.
Fuor di metafora, le sue canzoni, ma soprattutto QUELLA, finemente sbertucciata dai deliziosi sarcasmi di tutte le persone avantissimo che nobilitano questo pianeta, arrivano alle genti del pianeta meglio di lui. Ed è paradossale. In questo periodo ci sono pochissimi artisti che possiedono questo dono di suscitare praticamente ovunque, senza sforzo apparente, una simpatia (intesa proprio come le vibrazioni per simpatia delle corde degli strumenti). Si fa presto a ironizzare, a dichiararsi punkisticamente (o indiependentemente) superiori a tutto ciò. Quando il pop ottiene questi risultati, fa la sua magia, negata agli altri generi. Prima di sconfessare se stessi, i ragazzi di Teheran nel mettere il loro video su YouTube avevano scritto “We have enjoyed every second of making it. Hope it puts a smile on your face”.
Se mettete da parte i cinismi, tutto questo ha un suo che. È piuttosto buffo: Pharrell sta ottenendo quello per cui la maggior parte degli artisti darebbe un rene. Ma non se ne rende conto. Chissà se è questo, in questo momento, che gli permette uno stato di grazia nell’incidere dischi. La sua principale fonte di ispirazione non è il mondo che ci circonda né il suo ego: è sempre e comunque la patata (…beninteso, sulla nobiltà della patata come fonte di ispirazione non ci sentiamo di sindacare).
Per contro, proprio questa incapacità di capire le sue potenzialità, di reinventarsi artista ambizioso, rende il suo show piuttosto normale, con pochissimi elementi di narcisismo e pochissimo culto di sé. Beh, che dire. Per quel che ne sappiamo, potrebbe essere proprio questo, il segreto che permette di avere tanto consenso, e di essere “felici come una stanza senza il tetto”.