Il nome di questo appuntamento musicale è un termine uscito dalla penna di Taiye Selasi, scrittrice ghanese. Ma a renderlo celebre ci ha pensato il filosofo camerunense Achille Mbembe, nel saggio Afropolitanism: la multiculturalità come via africana alla cittadinanza globale.
Gli Afropolitan sono ibridi per definizione: studiano a Parigi, espongono a New York, ma conservano in maniera gelosa e originale le radici africane. E la musica, che si basa sugli incontri, si sa, riesce a unire tutto questo e anche di più.
A Milano, dal 5 al 7 dicembre, Afropolitan, diventa il nome un raccoglitore musicale da non sottovalutare – è la riproposizione di quanto è accaduto lo scorso mese a Roma all’interno del Romaeuropa Festival. L’appuntamento sarà in Triennale, dove Afropolitan è ospitato in accordo con Africa – Big Change Big Chance, mostra dedicata alle moderne architetture di matrice africana.
Baloji canta la sua “Le Jour d’Après / Siku Ya Baadaye”:
I protagonisti di Afropolitan sono giovani, internazionali e cosmopoliti. Musicisti figli della diaspora nera. Per loro l’Africa è un’eredità culturale, non più storia o geografia. Il loro rap, funk, electropop risuonerà sul palcoscenico del Teatro dell’Arte in tre concerti da non perdere.
Il 5 aprirà le danze Pierre Kwenders, congo-canadese, dale sonorità electro-soukous; sabato 6 sarà la volta di Baloji e di un rumba-funk-rap portato dal Congo quanto dal suo Belgio; il 7 andrà in scena Vaudou Game, dai tratti voodoo-funk disegnati sulle linee di un confine nitido tra Togo e Francia.
A condurre questi afterbeat di ultima generazione fino al grande pubblico c’è Mauro Zanda, che, con il suo carrozzone noto come Afrodisia, investiga e studia le frontiere dell’adesso meticcio e del sound che ne deriva già da anni. Lo abbiamo incontrato.
Una domanda facile facile: come e quando nasce Afrodisia?
Afrodisia nasce nell’estate del 2007 durante un viaggio ad Essaouira, Marocco. Nella mente e nel cuore l’idea di portare finalmente, anche a Roma, i nuovi fermenti musiculturali africani; fuori dagli stereotipi tribali, piuttosto, sintonizzati su quella nuova onda che, da New York a Parigi, stava e sta dettando le nuove tendenze artistiche di tante metropoli internazionali. Ne ho parlato con gli amici del Rialto Santambrogio, al tempo mi occupavo lì di una serata storica della scena funk romana, 24Carat. A loro l’idea è piaciuta subito tantissimo e di lì a breve siamo partiti per un lungo percorso zeppo di sorprese e soddisfazioni.
Questo recupero dei temi africani è solo una moda?
Ritengo che un pizzico di speculazione rischi sempre d’esserci purtroppo, ma in generale il ritorno di attenzione attorno all’Africa e alle sue mode penso sia solo positivo. Giova a tutti in fondo: agli artisti africani, di nuovo al centro dell’attenzione, agli artisti bianchi, annoiati e in cerca di nuova linfa, agli ascoltatori pigri, posti finalmente dinanzi ad una prospettiva nuova e vitale, a un’industria discografica moribonda, a un perdurante universo euro-centrico di cui oggi francamente facciamo volentieri a meno.