La strada di Andrea Nardinocchi è in salita. Lo sa anche lui, che in Italia per fare musica pop di un certo livello, che non si pieghi alla dittatura di Maria e della radio per «persone molto normali» richiede i poteri di un Supereroe. E quando gli ventiliamo la fatua fantasticheria «Se fossi nato in Inghilterra…», è lui il primo a dissolverla. Il che è solo coerente: il pop, dopotutto, dev’essere quella cosa di cui poter dire «qui ed ora».
Sei stato fermo tanto, no? Il tuo primo disco uscì nel febbraio 2013.
Penso sia stato un tempo naturale per partorire da zero testi, musiche, suoni.
Non è tanto per uno come te? Dai la sensazione di essere attento alla musica e come si muove. Non ti viene da essere più presente, da dire «Voglio esserci, fare questa cosa subito, perché va fatta adesso»?
Non c’è alternativa. In realtà sono un ascoltatore molto passivo. Quando mi piace una cosa la ascolto fino alla nausea, ma non sono il tipo che dice «Sento parlare di questo e quello, devo sentirli a tutti i costi». E poi non ho urgenza perché non penso che l’aspetto dei suoni sia importante.
Davvero?
Questo perché non c’è una collocazione di genere delle mie canzoni: testi, melodie e ritmiche sono molto diversi tra loro. A volte ho provato a direzionare delle cose per caratterizzarle in modo più immediato dal punto di vista dei generi musicali ma ho notato che non funzionava, mi sembrava di forzare. Inoltre ho notato che di quanto faccio, quello che è arrivato è l’aspetto più cantautorale rispetto a quello di appassionato di musica internazionale. Nel senso che colpisce soprattutto come racconto di me stesso.
La cosa ti spiace?
In parte sì, un po’ mi dispiace perché in partenza io non volevo fare l’artista, volevo fare la musica. Ma per farla devo fare l’artista. Poi le cose vanno come vanno, e tutti noi impariamo a conoscerci nel tempo: sto cercando anch’io di capire chi sono. Quindi in un certo senso provo a sfruttare quella parte di me che vuole dire qualcosa.
Secondo te è un limite del pubblico italiano? Intendo dire che secondo me tu sei uno dei pochi che potrebbe portarlo su ciò che si sente con le orecchie, lasciando perdere l’immagine, l’atteggiamento, la scrittura.
Non è detto che sia quello che il pubblico italiano vuole.
Ma ti sarai fatto un po’ di domande al riguardo.
Uh, non hai idea!
Haha, okay – a che risposte sei arrivato?
Nulla di concreto. Io il posto per me l’ho trovato nella musica. E mi sono detto: cosa bisogna fare? Tanto per cominciare, avere qualcosa da dire, perché alla fine si riduce tutto all’avere canzoni ed essere personaggi credibili. Non volendo fare la musica di qualcuno, ho iniziato a lavorare al mio progetto, scrivendo le cose che avevo in testa. La musica è stata il vestito che ogni volta andava a vestire queste cose che avevo bisogno di scrivere.
Ti è capitato di pensare «Se fossi nato in Inghilterra…»?
Cerco di evitarlo. È aria fritta. Troppe variabili, è assurdo.
Questa potrebbe essere una forzatura mia, ma sarebbe sbagliato dire che Sanremo 2013 ti ha un po’ provato? Non ti ho visto benissimo.
È corretto. È stata un’esperienza che era troppa per me in quel momento. Ma ho deciso di farlo perché non avrei mai potuto guardarmi allo specchio sapendo che potevo andarci, ma non l’ho fatto per paura. Così per orgoglio, anche sapendo che sarebbe stato difficile gestirlo, ho deciso di andare. Ed è stato allucinante. Specie per me, perché era da poco che esistevo come l’artista Andrea Nardinocchi. Ho imparato tante cose ma a caro prezzo.
Tra classifiche di vendita e di visualizzazioni, c’è qualche segnale di uno svecchiamento del mondo musicale italiano. In tutto questo, tu ti senti solo o vedi qualcuno come te?
Mi sento una mosca bianca. Forse c’è qualcuno che appartiene alla mia storia – non tanto al mondo musicale, ma per esempio Levante viene da management ed etichetta indipendente, è partita con un pezzo andato bene in radio. Nel complesso comunque mi sento solo, e forse è uno dei limiti del mio progetto, mancano elementi di riconoscibilità e appartenenza musicale e personale. Ne sono consapevole. Nel contempo, non saprei fare diversamente, anche volendolo – e non l’ho voluto. Non riesco a rendere il mio prodotto più fruibile. Magari d’ora in poi, per sopravvivere, cercherò di capire come fare. Perché sai, ho 29 anni, non voglio cambiare strada.
Magari sei un caposcuola.
Cosa che non mi piace. Perché sono quelli che se lo prendono in quel posto.
Eppure là fuori, all’estero si va molto più nella tua direzione.
Ma non c’entra. Il punto di riferimento, ovunque, è comunque l’individuo. Che racconta la sua storia. E se questa ha una falla, in una parola, o in una produzione poco coerente, o che vuole essere qualcosa che non è, allora in quel momento manca la credibilità, che è l’unico vero valore artistico musicale del futuro.
Sembri molto severo con te stesso. Forse stai soltanto dicendo le cose giuste, ma con un linguaggio per cui il pubblico non è pronto.
Chi lo sa, può darsi. Ma siamo in un’epoca di totale incertezza su quello che accadrà, quindi io ho paura di non riuscire a sopravvivere se mi intestardisco a fare l’artista-eroe. Quindi sto cercando di essere pronto ad adattarmi. Perché se è come dici tu, io non ci posso far niente. È capitato. Io sono così. Il mio progetto ha la sfiga di essere realmente autentico, in un certo senso.
Nel senso che ti somiglia tantissimo, intendi? Più a te che ad altre cose cui accostarlo, o più a te che al pubblico?
Diciamo che forse mi somiglia troppo per entrare nel flusso di quello che somiglia a qualcos’altro. Un prodotto musicale, spesso è l’opposto.
Molti brani di Supereroe sembrano composti parlando di te; ce n’è qualcuno composto pensando di parlare in primo luogo al pubblico?
Ci sono un sacco di messaggi in cui mando a quel paese quella parte di pubblico che non capisce, ma in modo molto moderato, ironico, perché come detto, non è colpa di nessuno, è qualcosa che è capitato. Diciamo che è un dissing, anzi la presa in giro del dissing.
In un brano alludi al fastidio del sentire i Modà per radio, ma sbaglio se dico che lo fai per non citare qualcun altro? Sono troppo diversi da te per darti fastidio.
Oh, beh, di cose che mi danno fastidio ce ne sono tante e loro non sono ai vertici – però se la giocano, eh. Rappresentano qualcosa che decisamente non mi piace.
Ma siete dimensioni così diverse. Il vero dissing sarebbe dire: «Non mi confondete con quella roba lì».
Però c’è una parte di pubblico che mi ha interpretato come un prodotto pop giovanile di un certo tipo. Con questo non voglio dire che mi rifiuto di rivolgermi a quel pubblico. Anzi, può anche capitare: non lo cerco, ma se succede vuol dire che una parte di quello che faccio: non voglio essere più underground o risultare più figo, ma forse una parte di me può effettivamente essere fruibile in quel modo.
Hai un buon rapporto con quello che è stato scritto o detto di te?
Come tutti ho iniziato a vivere i pro e i contro dell’esperienza. I pro non mi vengono in mente… Poi c’è stato il cliché del “Ha scritto qualcosa che non ho detto”. In generale sono in difficoltà. Coi social in quanto strumento invece ho un rapporto pessimo. Ho avviato la pagina Facebook per tenermi in contatto con il pubblico perché mi hanno convinto che era utile, era più immediato. Ma col mezzo in sé non ho un buon rapporto. Appena vedo quell’interfaccia sto male. Quando vedo le scritte, l’interfaccia che DEVE essere così, mi dà fastidio. Non mi piace assolutamente. Ho imparato ad apprezzarne le cose belle, le persone che ti contattano per dirti che gli è piaciuto quello che hai fatto. Oggettivamente, alla fine, è tutto un bisogno di essere apprezzati, accettati. Questo è, umanamente quello che si fa. E siccome io ho investito molto di me umanamente in questa cosa, e devo capire se continuare a farlo o meno, avendolo fatto, quando c’è questo ritorno è bello, mi fa stare bene.