Tame Impala non sono una normale rock band. Non lo sono mai stati. Non lo erano neanche quando la loro musica era basata essenzialmente sulle chitarre acidone. Figuriamoci adesso. Parlare di loro al plurale, lo sapete già tutti, è solo un inutile vezzo: Kevin Parker è da sempre un uomo solo al comando. Uno che scrive, suona, canta, registra, produce e mixa tutto da solo.
Uno che lo studio di registrazione, più che “nella cameretta”, ce l’ha nel cervello. E la chiave di tutto è proprio quella lì: Currents è essenzialmente il frutto del lavoro di un produttore con un’estetica molto personale e riconoscibile. Uno che sa plasmare la materia pop a sua immagine e somiglianza.
E pop è proprio la parola intorno a cui ruota tutto, anche se si tratta di un pop diverso, marcio e pure, come potrebbe essere altrimenti, psichedelico. Già le prime anticipazioni, in circolo da qualche mese, ci avevano fatto scattare sull’attenti: i Tame Impala del 2015 sono diversi da quelli del 2010 e da quelli del 2012, giocano con un altro immaginario, pescano negli anni ’80 più torbidi e provano a far convivere il Michael Jackson di Thriller con un approccio alla Daft Punk della bassa fedeltà. Vi state spaventando? Vi sembrano paragoni improponibili? Siete convinti che resterete delusi? Bene, vi sbagliate: Kevin Parker si dimostra ancora una volta lucido e credibile nello sviluppare la sua idea di suono, sempre la stessa, non è cambiato nulla, in un contesto che invece è quasi opposto a quello dei dischi precedenti.
La fanno da padrone i sintetizzatori, quelli vecchi e sporchi, e il vintage che cerca di non scadere nel revival. Quando ci riesce, il risultato è davvero sublime: come nel singolo Let It Happen, un viaggio di otto minuti che raggiunge il suo picco quando la traccia s’incanta e il disco sembra essersi rotto. Lo copieranno tutti.