Mica è facile cavarsela, in questi casi. Inizi una collaborazione, dal Festival del film Locarno, e pronti via il primo articolo è sul direttore. E allora sei lì e pensi: mi noterà di più se incenso il film, se lo stronco, se lo vado a vedere e lo ignoro temendo il conflitto di interessi, se ne parlo bene pensandone male o viceversa? E mentre morettianamente mi consumo in questo interrogativo, calano le luci sul Kursaal (un cinema con sotto e accanto un casinò, bella metafora) e comincia Romeo e Giulietta.
Per fortuna che, forse per quella somiglianza con Cesare Cremonini, mi dimentico dell’identità del regista, anche se spesso è in scena.
«Bravi, avete fatto il cinema». «Vero?». «Sì». Ok, lo ammetto, è uno spoiler, se state leggendo aspettando che stasera, alle 23.40, parta su Rai3 il film, un po’ vi arrabbierete. E se siete in Ticino e vi state avviando al Fevi, dove alle 17 ci sarà la prima, pure un po’ di più. Ma è difficile non raccontare questo film non partendo da quella frase asciutta, sorridente, assertiva. Che poi è il modo in cui affronta quest’avventura il cineasta: senza sche(r)mi. In prima persona, ecco perché forse viene naturale scriverne, contro ogni regola giornalistica o di critica cinematografica, partendo da sè.
Coppola ha una bella idea: portare Shakespeare in Rom. Romeo e Giulietta in un campo nomadi, può essere tenero e lacerante. Quella storia d’amore così pura, dura, implacabile, nel bene e nel male, finisce per far emergere certe contraddizioni culturali, cortocircuiti affettivi e antropologici, in mano a un cineasta che ha sempre visto le macchine da presa come porte aperte verso altre realtà. Da affrontare senza paura nè ipocrisie politicamente corrette, con la semplicità di una battuta o di un ragionamento essenziale e per questo spesso disarmante.
L’immediatezza dialettica, la metafora che diventa violenta perchè inevitabile, visivamente si traduce nella voglia di rischiare: con la GianniCam, sorta di selfiecinema in cui ciò che conta, però, non è chi è parzialmente inquadrato, in uno specchietto, ma ciò che osserva. Ed è Gianni, appunto, a offrirci spicchi di vita. Lui, che con i suoi 11 anni è il più sveglio di tutti, lui che ha imparato tutte le battute a memoria della pièce che vuole mettere in scena il regista, lui che ha un volto comico e irresistibile. Per farvi capire come spariglia le carte questo scugnizzingaro, è un rom che sogna di fare il poliziotto.
Tor De’ Cenci, Roma, diventa subito Verona. I clan rom tenuti a bada da Asco fanno sembrare Montecchi e Capuleti dolorosamente e grottescamente attuali, l’incredulità a volte perfida dell’autore è la nostra. O forse no, perché è inevitabile interrogarsi su quanto quelle regole tribali, lì codificate, siano anche nostre. Italiane, occidentali.
A questo va aggiunto la sensibilità di chi dirige per i volti, le espressioni, nel catturare le emotività. E per un gusto estetico ed etico non codificabile, ma mai velleitario. Quello di Bianciardi e Ho paura del buio, per intenderci: due gioielli di rara bellezza (sia chiaro, direttore, la sua produzione culturale è tutta straordinaria, ovviamente, lo dico con la mia faccia sotto i vostri piedi), proprio perché capaci di entrare laddove, solitamente, si trovano porte sbarrate. E aprirle, sul serio.
Ho scritto di getto e non rileggo. Tanto sui social mi daran del leccaculo, il regista si lamenterà della superficialità della recensione, i Rom di non aver parlato abbastanza delle loro tradizioni. E Valerio Mastandrea di non aver citato la sua gustosa partecipazione (in cui il verbo partecipare va declinato nel senso più ampio del termine). Uno come lui che ha il carisma e il talento del miglior Mercuzio, qui fa da coach, da fratello maggiore, da ponte tra Roma e Rom. Una piccola pennellata, che cambia il verso del film, che ci porta dentro il senso profondo di quello che si sta raccontando. Con leggerezza.
Insomma, «bravi. Avete fatto il cinema».