Se c’è un problema – e c’è un problema – con tutta l’ondata di band neo-psichedeliche che negli ultimi dieci anni si sono affacciate in maniera prepotente sulla scena musicale, è l’adesione quasi calligrafica a un cliché.
Hanno tutti lo stesso look, le stesse sequenze di accordi, lo stesso modo di approcciarsi al lavoro in studio e un rispetto nei confronti di quelle che possono essere considerate le fonti a cui si sono abbeverate per dare vita al loro suono che quasi sconfina nella venerazione, e che diventa poi imitazione.
Parliamoci chiaro: di gruppi meritevoli di essere ascoltati ce ne sono davvero un bel po’, ma in un ambito che per antonomasia dovrebbe essere dominato dalla libertà creativa più assoluta si finisce spesso per scadere nella reiterazione di uno stereotipo.
E così la psichedelia ha smesso di guardare avanti, grazie al “terzo occhio”, e ha cominciato a suonarsi addosso: ok, repetition is a form of change, diceva quello, ma ci può e ci deve essere una vita oltre il revival. Altrimenti si rischia di fare la fine del punk: il genere che per eccellenza era nato per prendere a calci nel sedere il consueto e fare a pezzi la pomposa religiosità del rock e che col tempo si è ritrovato a essere vittima di se stesso e dei propri quattro accordi (sempre siano lodati, comunque). È per questo che ci sono sempre piaciuti i Tame Impala, anche se più si va avanti e più chiamarli al plurale finisce per essere paradossale.
Kevin Parker è sempre stato una mosca bianca: uno che scrive canzoni, canzoni dalla spiccata sensibilità pop, e poi decide di volta in volta in che modo vestirle.
E c’è la psichedelia, certo, nella sua tavolozza; ci sono le chitarre acidone, ma pure il beat dei classici Motown, le melodie beatlesiane, un certo modo di concepire il groove che è molto debitore all’hip hop, e il fatto di concepirsi essenzialmente come un produttore che si cimenta con la composizione come farebbe un producer di elettronica e non un indie rocker australiano capellone.
Ed è proprio questo suo “stare in mezzo” a mille influenze a rendere i Tame Impala interessanti e nuovi, seppur con le radici ben salde nel passato.
Il loro concerto di ieri sera a Roma, negli enormi spazi dell’ippodromo di Capannelle, la venue solitamente destinata ai nomi giganti e ancora sovradimensionata per una band che nonostante tutto mantiene un legame forte con le proprie origini underground, rappresentava per più di un motivo la vera scommessa di questa fine estate.
Chi andrà a vedere i Tame Impala?
E quanti saranno? Quale sarà la dimensione giusta per un progetto che mira a essere pop ma che ancora non lo è?
Arriviamo sotto palco e troviamo esattamente lo scenario che ci saremmo aspettati: non c’è la folla dei concertoni, ma neanche poca gente. Anzi, forse ce n’è pure di più di quello sarebbe stato lecito sperare. Si sta larghi e praticamente sotto palco, ma il colpo d’occhio da su non deve comunque essere niente male. Nel frattempo Nicholas Allbrook, l’opening, è già nel bel mezzo del suo show.
Allbrook non è nient’altro che il frontman dei Pond, la band che accompagna Kevin Parker dal vivo. Quelli che fanno sì che un progetto da cameretta – i Tame Impala – possa arrivare a esibirsi sul palco. Anche Allbrook faceva parte dell’incarnazione live del gruppo-che-non-è-un-gruppo di Perth, ma ha mollato nel 2013 per poi comunque aprire da solista tutte le date del tour. Per certi versi è come se Parker, isolazionista per vocazione (uno che ha chiamato un disco Lonerism potrebbe essere mai diverso?), non possa in realtà fare a meno delle persone con cui è cresciuto. Addirittura i membri della crew, dal fonico al tecnico luci passando per i backliner, appartengono tutti a band in cui aveva militato in passato. E c’è qualcosa di incredibilmente romantico in questa bizzarra famiglia di magrissimi indie rocker australiani che gira il mondo per proporre queste strane canzoni un po’ disco e un po’ no.
Allbrook sta dando tutto: da solo, con chitarra elettrica e basi, occupa il palco immenso non senza qualche difficoltà, ma senza mai dare l’impressione di soffrirlo. I visual che vengono proiettati sullo schermo gigante mentre lui si dimena con la chitarra rendono tutto ancora più surreale. A un certo punto qualcuno del pubblico gli chiede il suo giudizio su Currents, l’ultimo album dei Tame Impala, lui si fa trovare spiazzato e dice di non sapere di cosa si tratta. Chiede a sua volta se stanno per caso parlando di quegli “strani noodles che si mangiano in Italia” per poi raggiungere l’illuminazione: «Ah, Currents, il disco dei Tame Impala, è una vera gemma!». Senza alcun dubbio: man of the match.
Quando Kevin Parker e compari arrivano a occupare la scena, la curiosità è tanta:
“Come suoneranno dal vivo i nuovi brani?”
“E i vecchi?”
“In che modo riusciranno a convivere insieme?”
Dopo l’intro, tra visual stordenti e giochi in controluce, parte Let it Happen, senza dubbio la canzone simbolo del nuovo corso dei Tame Impala. La cosa che colpisce subito è il modo in cui i suoni anche dal vivo sembrano essere “prodotti”. La voce di Parker, il suo riconoscibilissimo falsetto, è sempre doppiata sia dai cori del tastierista che dalle basi. Per non parlare degli effetti: sembra che canti dentro a una scatola, esattamente come nei dischi, e lo stesso vale per ogni singolo altro strumento. Per i bassi doppiati dal moog, per le chitarre, per la batteria che utilizza pad e drum machine intervallati ai tradizionali fusti e per i sintetizzatori. Soprattutto per i sintetizzatori.
Nei dischi e nei live prima di Currents venivano usati come se fossero un colore: ora sono l’elemento primario. Il tratto distintivo.
È un concerto, ma sembra di ascoltare il disco. O almeno è così nella prima metà, mentre via via che si arriva al finale tutto diventa volutamente più caciarone e sporco.
I Tame Impala sono prima di tutto un’idea di suono. Il gioco di un produttore.
La cura maniacale per i dettagli è evidente in ogni scelta, mentre l’aspetto comunicativo viene messo in secondo piano, anche se non c’è un attimo dello show in cui Parker non compaia come un leader empatico. Non si concede neanche una posa da rockstar, dialoga col pubblico come si trovasse in un piccolo club e non in un’arena.
Ripete, in maniera quasi ossessiva, di essere contentissimo di trovarsi a Roma. Non si aspettava un’accoglienza del genere e un pubblico così bello, parole sue, e ci tiene a farlo sapere.
Viene rapito dalle decine di preservativi gonfiati che volano sopra la testa della gente. Ne chiede la ragione: «È per caso una strana tradizione romana?».
Poi la stessa domanda la farà per le centinaia di cappelli rossi tra la folla: «Carino che avete tutti il cappello rosso. Me ne tirate uno?». E così canta tutta Feels Like We Only Go Backwards, l’unica canzone dei Tame Impala che può essere considerata una hit, facendo avanti e indietro con questo simpatico cappello rosso in testa che poi si rivelerà essere, proprio come i preservativi, nient’altro che materiale promozionale di cui i partecipanti a Rock in Roma vengono omaggiati ogni volta. Lo sponsor, quindi: la cosa meno romantica del mondo, per tutti tranne che per Kevin Parker.
Tutto il vecchio materiale è stato riarrangiato per stare bene con i pezzi del nuovo disco, cosa che più che far storcere il naso a qualche purista sta a lì a testimoniare quanto il tanto strombazzato cambiamento dei Tame Impala sia in realtà un’evoluzione naturale.
E così, mentre il concerto fa il suo corso e la band si toglie la soddisfazione di eseguire un brano chiamato Sestri Levante proprio il giorno dopo averlo eseguito a Sestri Levante, diventa sempre più chiaro quanto a Parker interessi pochissimo essere rinchiuso in una casella. Di base è solo un tizio con uno scopo: inseguire la canzone perfetta.
E prima o poi la raggiungerà.