David Gilmour ha scritto una delle sequenze più celebri della musica del XX secolo: le quattro note del leitmotiv di Syd Barrett in Shine on You Crazy Diamond. Fa tenerezza saperlo un giorno in attesa del treno alla stazione di Aix-en-Provence, talmente ipnotizzato dal jingle degli annunci Sncf – quattro note per voce femminile sintetizzata (“ta-ta-talà”) – da registrarlo col suo iPhone e scriverci sopra una canzone. Rattle That Lock, la canzone, ha un testo ispirato a John Milton (molto alla lontana; parole di Polly Samson, moglie di Gilmour e scrittrice) e l’andamento buono per un lato B di Joe Cocker. Si perdonerà facilmente il pastiche (pasticcio?) ricordando che a 20 anni, poco prima di unirsi ai Pink Floyd, Gilmour aveva girato la Francia probabilmente in treno, vivendo d’arte e d’amore secondo l’uso dell’epoca (quando al jingle non c’aveva ancora pensato nessuno). A nessuno si negherà l’evocazione dei propri ricordi. Neppure a lui che in Inghilterra quella volta ci tornò con un furgone, rubando la benzina a un cantiere. Altri ricordi. Rattle That Lock, l’album, si apre e si chiude con un tema strumentale (5 a.m./And then…), che discende direttamente dall’assolo di Shine on You Crazy Diamond (e a dire il vero c’era qualcosa di molto simile anche all’inizio dell’ultimo recente album dei Pink Floyd). Già all’epoca, quando Syd Barrett ascoltò la canzone scritta per lui, dice una leggenda che la trovò un po’ antiquata (“outdated”). Giustamente. Beethoven è il destino. Stravinsky il moderno. Il tema finale di Supermario, la beffa e il fallimento. Gilmour la nostalgia.
Tutto il lavoro di David Gilmour discende da quell’assolo. A metà degli anni ’70, da chitarrista dei Pink Floyd lo inventò con la Stratocaster (più compressori e pedali) e il sustain a fine corsa, tirando le corde come facevano certi bluesman (B.B. King, ad esempio). Di quel blues cosmico fece la sua voce. Di più, inventò dentro quel suono le movenze di un personaggio: l’hippy tecnologico, l’astronauta esistenzialista perduto nello spazio e chiuso nella metaforica astronave della vita, capace ogni volta di arrendersi (soprattutto, farci arrendere) all’inesorabile – doloroso – passare del tempo. Anche – proprio come Mark, il protagonista di Zabriskie Point – sognare l’esplosione delle cattedrali della merce con la sola forza del volume, tipo manga. Nello stesso nuovo album di Gilmour un’altra frase di quattro note apre Faces of Stone, ballata folk per chitarra e voce che, strada facendo, diventa un valzerino retrò di un certo buon gusto. Oscilla tra i Beatles e un’antica jazz ballad la successiva Dancing Right in Front of Me, una specie di elegia per una coppia in crisi. A Boat Lies Waiting ha l’architettura di The Great Gig in the Sky, con la steel guitar e una voce lontana dall’accento molto inglese, prima di incartarsi nella inevitabile banalità dello sviluppo. In Beauty c’è prima l’eco di un fischio, poi l’immancabile drone in minore, e tutto il resto che sappiamo. Eccetera, eccetera.
Album senza sorprese, Rattle That Lock vive soprattutto negli interstizi, nelle introduzioni, nella frammentaria nostalgia dei vecchi suoni pinkfloydiani e gilmouriani. Nello “spazio profondo” della creazione, insomma, e nel dolore del tempo che passa, più ancora che nel pieno delle canzoni scritte, chiuse, finite. Tutte dimenticabili, già “antiquate” come diceva il buon Syd Barrett, come tutte le canzoni finite lo sono in qualche modo, karaoke della condizione umana / adesso che il Cielo è stato perduto per sempre (anche questo verso è ispirato a John Milton).
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