Sembra che per contratto, nella carriera di un musicista, a un certo punto debba arrivare il momento del “crollo totale”. Di solito c’è di mezzo un perduto amore (o peggio ancora la morte di qualcuno: genitori, amici…).
Poi però la perdita si estende, ingloba, risucchia tutto, il mondo smette di avere senso, arriva la più cupa delle depressioni, un inverno infinito, la paura di non farcela. Fino a quando, dal nero, ecco affiorare il lumino della speranza. Ci si chiude in studio e si sforna un album bellissimo. No No No dei Beirut ha una genesi di questo tipo.
A dicembre del 2013 Zach Condon si ritrova in ospedale in Australia dopo un tour mondiale durato praticamente tre anni, cancella il resto del tour e finisce dentro al tunnel del male oscuro. Visto che la storia non si fa “con i se e con i ma”, nessuno può sapere se No No No avrebbe mai visto la luce senza quel cono d’ombra, però è vero che, rispetto ai lavori precedenti, l’album trasmette una sensazione di scampato pericolo. Dal loro esordio con Gulag Orkestar, il successo dei Beirut è stato impressionante, tanto che nel giro di poco tempo dire: “una roba à la Beirut” era diventato già un concetto chiarissimo.
No No No pare prendere le distanze anche da questa immediata riconoscibilità. Forse nello sfinimento del “crollo totale”, Zach si è stufato pure di essere così tanto se stesso. Il pezzo che dà il nome all’album è una specie di catarsi del proprio essere Beirut, con un eclettismo di suoni – altamente controllato – che prende in giro e fa esplodere l’afflato balcanico verso altri orizzonti.
Sono scomparsi gli strumenti “strambi” per lasciare il posto ad arrangiamenti da piano, basso, chitarra e batteria. At Once, nella sua semplicità melodica, ha l’andatura di un classico, luminoso e commovente. La voce di Condon si rimodula tra vischiosità e chiarezza, rinunciando a certe derive leziose di un tempo.