Un 60enne grasso e bolso con un rapporto preoccupante coi propri fluidi corporei, che si dimena come un buffone in una sala angusta che forse non ha neppure riempito del tutto, davanti a fan patetici, nostalgici e incapaci di constatarne l’attuale mancanza di rilievo rispetto a qualsiasi scena.
Bene.
Premesso questo per far contenti QUELLI CHE NE SANNO, quello dei PiL ai Magazzini Generali di Milano è stato un concerto fantastico, e John Lydon resta uno degli artisti più straordinari che il rock abbia mai visto.
ci sono pochissime barbe
ma anche pochissime creste
Partiamo dal pubblico, perché si fa sempre. Non ci sono mediapeople né fighetti indie, ci sono pochissime barbe ma anche pochissime creste. C’è (sì, c’è) gente di una certa età, vestita ammodino, che fa lavori normali e ha imparato a tenersi dentro la propria parte sulfurea e minacciosa, e non ne fa sfoggio vanerello con una maglietta dei Ramones.
La sensazione è che manchino soprattutto quelli che si riempiono la bocca (e la TL) con la parola punk, per i quali la sigla PiL è sempre stata scomoda e spiacevole, perché era il seppellimento del punk, la prova che era morto ma il suo muezzin non solo era sopravvissuto (a differenza del suo amico tonto) ma aveva voltato pagina e si permetteva di canalizzare in altro modo il suo persistente rancore. In ogni caso, se lo ritenete interessante, l’età media era alta ma i millennials erano un bel po’, se questo significa qualcosa.
Dopo il gruppo di supporto (un po’ a sorpresa i Delenda Noia, giovane duo di Reggio Emilia con esplicita devozione per la new wave ’78-82) alle 22 salgono sul palco i PiL, piccola all-star band di cui si parla poco: Lu Edmonds (qualche mese nei Damned, poi nei Mekons e negli Shriekback, uno che deve aver visto cose – e ne ha la faccia); Bruce Smith (The Pop Group e poi Slits, ma se la radio passa Terence Trent D’Arby o la prima Bjork, quello che picchia sotto è lui) e l’ultimo arrivato Scott Firth, turnista apprezzato da Elvis Costello e John Martyn ma anche da Mel C delle Spice Girls (“a proper bass player”, lo omaggia il cantante, e poi ne riparleremo). Un manipolo di vecchiacci ben più pirateschi dei Sex Pistols di cartone di Friggin’ in the riggin’.
E poi, beh, John Lydon.
Entra in scena, e subito la platea è destabilizzata. Sì, è impresentabile. Lo è sempre stato. “Ciccione bastardo!” ghigna qualcuno, un po’ più punk. Lui da subito lancia lo sguardo assassino che oggi lo fa somigliare al vecchio Jerry Lee Lewis; a tratti tra una smorfia e un balletto sghembo si blocca per fissare un singolo spettatore (ok, non sono 20mila) e sfidarlo, chiamarlo a confrontarsi con lui. Il primo pezzo è Double trouble, demenziale singolo dal nuovo album, brano che tenta l’autoiconoclastia estrema: dimostrare che si può mantenere la stessa attitudine esplosiva nella routine familiare di una casa borghese, litigando con la moglie per lo sciacquone che non funziona. Dopo un altro brano da What the world needs now (in tutto ne farà 5-6) scalda il pubblico con This is not a love song, in medley con Bettie Page, uno dei pezzi notevoli del nuovo album. Qualcuno tira sul palco un bambolotto di plastica con la sua effigie ( vedi foto). Ride estasiato e ci duetta – beh, non gli stanno tirando sputi o lattine.
Durante Disappointed, altro piccolo colpo di scena: non solo non ricorda le parole e deve guardarle sul leggio, ma non le vede neppure. Si fa dare gli occhiali da vista. Il pubblico ride incredulo eppure affettuoso: la verità è che se un giorno Lydon si presentasse barcollando con un bastone e prima di cantare si sistemasse la dentiera, sarebbe sempre lo psicotico geniale che è. Peraltro, gli occhiali gli permettono una gag: “Fatevi guardare!”; dopo una rapida occhiata al pubblico inorridisce e li toglie, continuando il concerto senza.
C’è qualcosa di animalesco
nel suo persistente confronto
col pubblico
La setlist è interessante: potrebbe usare le poche canzoni radio-friendly (ehm) della storia dei PiL tipo Seattle, Don’t ask me, Acid drops, Rules and regulations o alcune dal nuovo disco (tipo Spice of choice) ma sceglie di non farlo; in compenso, curiosamente, la musica è molto danzabile. Molti, un po’ sorpresi, si ritrovano a ballare quel magma sonoro cupo e distorto che ruota attorno al basso, strumento per cui Lydon ha una nota venerazione (…volendo, si potrebbero dedicare ore al fatto che nei Pistols era lo strumento più problematico). La potenza vocale, per contro, è impressionante e quasi spiazzante. E la usa in ogni modo possibile. Anche quando a un certo punto qualcuno si inerpica dove non deve – ed è subito Londra 1976, quando qualcuno in sala non gli andava a genio: «YOU!!! Fuck OFF the balcony!!!»
C’è qualcosa di animalesco nel suo persistente confronto col pubblico, è una cosa che i video d’epoca non restituiscono a dovere, è sfida ma anche dialogo e confessione (è pur sempre quello che, non ancora 22enne, dal palco fissò il pubblico americano e gli disse «Avete mai avuto la sensazione di esser stati fregati?»)
La fase centrale del concerto sembra quella più debole: qui, per quanto possa sembrare improbabile il paragone (ma Lydon è fan di gente diversissima da lui, come Kate Bush e Peter Hammill) viene da pensare a Neil Young, a quando deliberatamente ricorre a una musica basica, monotona, ipnotica, usata come tappeto su cui passeggiare a proprio agio, privo di limiti e riguardi (ma deogratias, a differenza di Young non si lancia in micidiali assoli mononota di chitarra).
Ma non per questo si prende pause. Anzi, quando finito un pezzo tiratissimo la gente respira, lui la guarda brutto e non sentendo casino dice «Beh? Quindi possiamo andare a casa?» e attacca l’inno post-punk dei PiL, la feroce Religion. E la fa durare VENTI MINUTI, signore e signori, sollecitando sempre la potenza del basso, facendo alzare scientemente il volume, «Turn up the baaaassss» finché il pavimento del locale non trema.
Questo perché, ha detto in un’intervista, vuole scuotere fisicamente il pubblico, allertare il suo organismo (quello di Lydon è ipersollecitato: alla fine di ogni pezzo va a fare dei gargarismi con una bottiglia di whisky, sputa in un cestino apposito, si soffia di continuo il naso nell’aere tappandosi una narice). Alla fine, se Dio vuole Religion finisce (…scusate la boutade) con gli spettatori che anche in questo caso, si guardano sorridendo esterrefatti e finisce, dopo un’ora e mezza, anche il concerto.
Ovviamente arrivano i bis: qualcuno grida: «Anarchy!» Non se ne parla nemmeno: partono The public image, accolta con euforia, e soprattutto Rise, che scatena definitivamente il pubblico.
E mentre gli occhi di bragia di Lydon dardeggiano, di colpo vedendo il 60enne grasso e bolso che intona «Anger is an energy», non si può non arrivare a una conclusione: Lydon è ancora arrabbiato, quarant’anni dopo, e nessuno Skrillex e nessun Kanye West o Die Antwoord saranno mai così arrabbiati – e badate, pare un discorso da nostalgici ma non è così, è semplice piccolo dispiacere per il non poter più rivedere niente di simile. Se non da un 60enne grasso e bolso che però ribolle ancora di furore entusiasta, vitale. E che alla fine si inchina: «My name is John. Grazie, Milano. Thank you for coming». Perché poi, in definitiva, è un pazzo pericoloso, ma cortese.