“Post coitum omne animal triste est”. Avevano ragione i latini, come sempre, Perché terminato l’ascolto del terzo album dei dead Weather sono troppi i motivi per voler tornare subito a perdersi in quel giardino di delizie che è Dodge and Burn, un album vero, non di maniera, dove la band si impone come dominatrice musicale senza chiedersi mai, neanche una volta, cosa potrebbe piacere al suo succubo. Non sono mai stato un grande ammiratore della voce di Jack White, ancora oggi mi chiedo come mai gli Stones lo abbiano voluto a duettare su Loving Cup in Shine a Light, però gli riconosco che, quando deve tenere un tempo, che sia con una chitarra o una batteria come in questo caso, White ha mestiere ed è in grado di illudere il mio vecchio sedere ultraquarantenne di aver riguadagnato qualche primavera facendolo sculettare per tutte e 12 le tracce del bellissimo e, soprattutto, groovosissimo Dodge and Burn.
Con questo album i Dead Weather hanno infatti raggiunto una compattezza compositiva e sonora tale da rendere un side-project come questo meritevole di un ruolo primario nelle carriere dei suoi quattro componenti. Già partendo con la monumentale I Feel Love (Every Million Miles), dove White si produce in uno scarno quanto efficace omaggio a John Bonham, l’intensità dei riff è tale da farmi venir voglia di indossare i pantaloni più stretti del mio guardaroba e, panza strabordante o meno, giocare a fare Robert Plant per un po’, mentre Alison Nicole Mosshart mi stuzzica con un cantato disperato e lascivo al tempo stesso. Buzzkill(er), che è solo la seconda traccia, è forse la mia preferita.
La cantante dei The Kills si produce in una sensualissima performance da vera figa, da donna inarrivabile, vi piaccia o meno il motore primario del blues e di tutto quello che ne consegue. Impossibile ascoltarla e non immaginarla come la femmina più bella e affascinante che voi abbiate potuto sognare, seduta su un trono e con il resto dei Dead Weather legati a un guinzaglio a dimenarsi sugli strumenti, mentre lei, tra un sospiro e un ammiccamento, li guida in una specie di ordalia sincopata fatta di ipnotici riff di tastiera e chitarra. Su Three Dollar Hat, un curioso e intrigante tributo all’hip hop alternativo di Cypress Hill e Fun Lovin’ Criminals, White trova finamente un impiego sensato per la sua vocina fastidiosa che, collocandosi in un timbro molto vicino a quello di AD-Rock o B-Real, funziona benissimo.
Rough Detective è un pezzo molto sexy, euforico, in cui White e Mosshart si producono in un cazzutissimo duetto su un giro che sa sì di già sentito, ma anche di buono. Un po’ come quando in una torbida nottata di sesso la quarta la fate più sull’onda dell’entusiasmo che per la ricerca della posizione perduta del Kamasutra, Rough Detective vi mette nell’umore giusto per gustarvi la fase refrattaria post coitus con quella gran botta ignorante che è Open Up…, traccia un po’ nerd con un certo retrogusto di Rush, e per addentrarvi nella seconda metà di Dodge and Burn sapendo che oramai potete andare sul sicuro. Ci vuole un attimo perché la Mosshart torni a tirare le cinghie con cui domina questo album. Cop and Go, erotica e claustrofobica, ritorna a castigare tutti i maschietti in ascolto calandosi nei panni di una Bettie Page che ha deciso di abbandonare costumi animalier per pelle e borchie. It’s Just Too Bad è forse la prima delusione dell’album, che però si chiude trionfalmente con la bellissima Impossible Winner, una ballad in pura americana, con tocchi di Elton John, dove l’arrangiamento apparentemente dissonante degli archi ricorda a tratti alcune pensate geniali di produttori titanici come George Martin o Bob Ezrin.