Era da poco passato il 9/11 e stavo conversando con lo scrittore francese Michel Houellebecq sul tema a lui molto caro della cultura islamica e della sua relazione con l’Occidente. Con la sigaretta tra mignolo e anulare, entrambi ingialliti, gli occhietti piccoli e quelle labbra sottili, le sue parole uscirono come un sussurro: “Non ha senso fare la guerra al fondamentalismo islamico. Dovremmo piuttosto bombardarli con i videoclip di MTV, non con le granate”.
Quello che intendeva, mi parve allora, era molto semplice: il soft power (quello della cultura pop, per intenderci: film, canzonette, libri) sarebbe stato molto più efficace di qualsiasi azione militare nel sottrarre forze e (false) ragioni all’estremismo, nel disinnescare il fondamentalismo islamico attraverso la seduzione dell’Occidente.
Sono passati molti anni da allora – poco più di dieci, ma sembrano molti di più. Ci sono state guerre tragicamente inutili, le dittature arabe si sono frantumate lasciando spazio a milizie improvvisate quanto follemente determinate alla barbarie, è stato ucciso Bin Laden, l’Europa si è trovata sotto attacco più volte (Londra, Madrid, Parigi). Eppure ancora oggi c’è chi si sorprende del fatto che l’Europa non sia più il paradiso isolato e autosufficiente che credevamo fosse ma al contrario un campo di battaglia a bassissima intensità con picchi improvvisi, tragici e spettacolari come quello di ieri in cui decine di cittadini europei (donne e uomini, bianchi e neri, cristiani e musulmani) sono stati feriti e uccisi senza altro motivo se non essere cittadini francesi e europei. All’occhio degli assalitori, quella era la loro unica colpa.
Ma se è vero che sarebbe sciocco sorprendersi, un fatto nuovo e preoccupante c’è. Nonostante sia estremamente difficile provare ad essere lucidi in momenti come questi, a non farsi sopraffare dal dolore o peggio dall’odio cieco che può essere l’ultima risorsa di chi lotta contro un nemico senza una divisa e senza un campo di battaglia, un dato emerge in modo incontestabile. Gli attacchi di ieri a Parigi avevano come obiettivo lo stile di vita occidentale. Non è stata attaccata una stazione, un aeroplano, un qualsiasi raduno di governanti. Sono state attaccate le nostre abitudini, i nostri piaceri quotidiani, la nostra cultura popolare. Una partita di calcio, un concerto rock, una cena al ristorante. Non può essere un fatto casuale. I barbari fondamentalisti che si fanno chiamare Stato Islamico (autoproclamato) hanno “bombardato” il nostro tempo, un venerdì sera qualunque, di una qualunque città europea, in cui, finito il lavoro, si esce a bere, a guardare il calcio, ad ascoltare musica, a mangiare qualcosa. E a stare insieme, in quella “promiscuità” che resta il sogno proibito di ogni fondamentalista islamico e la matrice prima del suo odio.
La notizia della carneficina mi ha raggiunto in un pub di Glasgow. Stavo chiacchierando con due membri di una rock-band – i Mogwai. Raccontavano di quante volte avevano suonato al Bataclan. Mi accennavano che solo due giorni prima, la band che stava suonando a Parigi (gli Eagles of Death Metal) era proprio a Glasgow per un concerto. Tutto del luogo in cui mi trovavo – uno delle decine di migliaia di luoghi simili in ogni parte del mondo – mi diceva che era come se stessero sparando anche qui. A queste ragazze con un drink in mano, a questi uomini e donne rilassati davanti a un whiskey scozzese, a questi gruppi di teenager che stavano organizzando la serata, a queste rumorose tavolate di uomini che discutevano di calcio. Nulla di diverso da quel stava accadendo a le Bataclan, a Saint Denis, al ristorante Cambodge un attimo prima che la carneficina avesse inizio.
La provocazione di Houellebecq oggi diventa un sinistro presagio, quando dopo aver “esportato” democrazia con le armi (la prima bugiarda e nefasta reazione all’attentato dell’undici settembre) siamo ora costretti ad asserragliarci. Hollande, il presidente della repubblica francese ha proclamato lo stato d’emergenza, che autorizza i prefetti a “limitare la circolazione delle persone, imporre loro di non uscire di casa, procedere a perquisizioni senza ulteriori motivazioni”, se non, appunto, lo stato di emergenza. E chiude le frontiere. Mai come oggi un superficiale grido genericamente pacifista suona stonato se non addirittura irrispettoso. Qualcosa andrà fatto e se per fortuna, da Parigi ci dicono che la gente è per strada, nei caffè e sui mezzi pubblici questo non potrà bastare. L’Europa ha il dovere non più rinviabile di unirsi e decidere una strategia condivisa e ben ponderata per far fronte alla situazione.
Scrivo queste righe sul treno Glasgow-Edimburgo. Alzo gli occhi e guardo i passeggeri. Mi sembra di amarli tutti. Liberi, come me, di pensare, di parlare, di fare l’amore, di andare ad un concerto, di cambiare città, religione, band preferita, squadra di calcio, orientamento sessuale ogni volta che ci va. Mi sorprende un fiotto improvviso di dolce commozione, spunta una lacrima tranquilla, forte della consapevolezza che questa libertà sapremo difenderla ad ogni costo. Io la difenderò ad ogni costo. Abbiamo questa responsabilità e dovremo essere in grado di esercitarla. Non sarà facile, ma non possiamo pensare che chiuderci in casa possa essere la soluzione. Ieri abbiamo cominciato a costruire un muro. E mai nella storia, mai, un muro ha portato buone conseguenze.