«Alle superiori andavo alle private, lì la musica non interessava a nessuno. Per questo l’ho sempre vissuta in modo molto intimo, quasi religioso, assolutamente privato. Quando però salgo su un palco succede qualcosa che non ti so spiegare bene. Non è più una cosa privata, la musica diventa di tutti. Questo è gospel».
Da quello che racconta Gabriele (chitarra e voce dei Joe Victor) in modo tanto trasversale quanto chiaro, i Joe Victor sono un progetto abbastanza atipico se consideriamo il sottobosco musicale romano di questi anni – scena della quale fanno parte, anche se solo da un punto di vista geografico. Nonostante il loro disco d’esordio Blue Call Pink Riot sia fuori soltanto da pochi mesi, i Joe Victor hanno già mosso grandi passi al di fuori dei confini nazionali, entro i quali spesso le band indipendenti italiane rimangono relegate: il Troubadour di Londra e lo Sziget Festival sono solo alcune fra le tante – e stupefacenti, se consideriamo che sono in giro da poco più di un anno – tappe già bruciate dal quartetto romano, letteralmente. Abbiamo fatto due chiacchiere con Valerio e Gabriele, cuore pulsante della band, per capire meglio il loro senso di gospel.
non mi interessa raccontare quello che vedo fuori
ma quello che ho dentro
Nel vostro disco ho sentito tante influenze abbastanza esotiche, ma partiamo dall’inizio: in questi anni Roma sta sicuramente sfornando tanti progetti interessanti, anche se voi sembrate abbastanza fuori da quel filone.
G La scena indipendente romana dici? Beh, sicuramente la prima differenza è che noi cantiamo in inglese. Apparteniamo a quella scena più a livello geografico che estetico: ci si conosce, si frequentano gli stessi locali, ma finisce qui. Abbiamo scelto l’inglese per dare un respiro più internazionale, e anche perché ascoltiamo soprattutto musica straniera. Poi la musica è linguaggio, ciascuno quindi, al di là delle scelte fatte a priori, si esprime come meglio gli riesce.
V Esatto, niente di particolarmente ragionato. Le canzoni le scrive tutte Gabriele, ma il sound è una cosa che capita. Poi come diceva lui (indica Gabriele) siamo cresciuti ascoltando musica straniera. Dai più ovvi Beatles e Bob Dylan a tutta la scena rock e folk americana o inglese… Quando facevamo il liceo ci trovavamo a casa sua, e magari Gabriele mi faceva ascoltare quattro dischi di fila nel giro di un pomeriggio. Io che avevo solo sentito nominare i Beatles da mio padre andavo da lui e mi sparavo Abbey Road, Sgt. Pepper e Beatles For Sale uno dopo l’altro. Tornavo a casa stremato, non ci fermavamo proprio mai! (Sorride)
Al di là del fattore linguistico vi trovo molto diversi anche da un punto di vista lirico: mentre i gruppi della scena indipendente tendono spesso a parlare principalmente di realtà vicine e conosciute, voi siete meno specifici, e quindi potenzialmente universali.
G Ci lusinghi! In realtà che si suonasse a Roma l’abbiamo scoperto quando abbiamo cominciato a suonare insieme, prima non avevamo idea di cosa girasse, che ci fosse una scena, niente. Quindi come ti dicevo è stato tutto molto casuale, nessuna decisione meditata. A me non interessa raccontare quello che vedo fuori, ma quello che ho dentro. Lavoro su quello che della musica mi fa stare bene: se fa stare bene me può far stare bene anche te, anche se non ci conosciamo.
Immagino che i concerti siano molto molto importanti per voi. In questo senso avete raccolto un bel po’ di soddisfazioni uscendo così presto dai confini nazionali.
G Eh sì, il live è importantissimo. Poi appunto, scrivendo in una lingua internazionale come l’inglese abbiamo l’opportunità di essere ascoltati e capiti ovunque andiamo.
Qualche aneddoto particolare, qualche bella sorpresa?
G Sicuramente quella di avere una piccola fanbase a Vienna. È stata una data totalmente autoprodotta, un’idea nata in un periodo in cui suonavamo tantissimo a Roma. Siccome abbiamo amici là siamo riusciti a far girare abbastanza la nostra musica, e ci siamo trovati a suonare in un club pieno di persone che conoscevano già qualche nostro pezzo. Una gran bella soddisfazione. Invece lui (indica Valerio ridendo) ha fregato il reggiseno a Joe Bel allo Sziget.
V Aspetta, non l’ho fregato, me lo sono ritrovato nello zaino! (ride) Ora ti racconto bene: dopo il concerto lascio zaino e strumentazione nel retro del ristorante accanto al palco. Due giorni dopo il live mi ricordo di non avere più né zaino né strumentazione. Quando vado a riprendere tutto apro immediatamente lo zaino per controllare che ci fosse ancora il computer, e assieme al computer (per fortuna) trovo questo reggiseno. Era quello di Joe Bel, una cantante francese molto brava, anche lei ha suonato allo Sziget. Ma me l’avevano messo loro per scherzo (indica Gabriele), quindi nessun intrigo. La vera sorpresa però è arrivata guardando meglio il reggiseno: super imbottito! (scoppia a ridere) E noi che abbiamo passato tutto il live a pensare avesse due robe…(si porta le mani al petto) Joe Bell, ti abbiamo smascherata!
Succedono anche quando suonate in Italia queste cose? O vi divertite di più all’estero?
V Noi ci divertiamo dappertutto. Guarda che a noi piace tanto suonare. Ma tanto tanto. Pensa che anche prima di avere la band io e Gabriele passavamo ore chiusi in bagno a cantare armonizzando le voci, invece di cercarci la ragazza come facevano tutti. (ridono)
Al di là del live o di Roma, come percepite la scena italiana più in generale?
G Eh, siamo un po’ indietro. Siamo ancora fermi ai cantautori, ancora a chiederci se la canzone d’autore debba o non debba parlare del sociale (mima una erre a’la Guccini). In Italia stiamo ancora fermi a chiederci se sia meglio Guccini o Battisti, ecco.
E voi chi scegliete?
G Beh, Battisti! Ma noi siamo sempre stati un po’ fuori dalla scena. I social ad esempio ho iniziato ad usarli solo ora che ho la band, prima usavo internet giusto per scoprire musica nuova. E purtroppo qui in Italia questa cosa non ha preso granché piede, mentre all’estero ci sono intere piattaforme fatte per condividere musica rimasta fuori dalla tradizione europea: musica indiana, africana, pakistana… Prima sentivi per esempio un disco dei Beatles e scoprivi il sitar, poi Ravi Shankar e così via. Ora ovviamente internet velocizza tutto, ma trovo che qui in Italia internet venga usato più per parlarsi addosso che per le cose utili. Non che non ci piaccia come mezzo di comunicazione: semplicemente preferiamo la musica.
V Beh, è anche figo internet dai… Senza internet non avremmo conosciuto un sacco di musica che ci piace..
G Mah, forse l’avremmo conosciuta diversamente!
V Ma no, dai..è come se tu esci con una ragazza. Ti piace. Ti piace perché ti piace, non per quello che dice. E ti piace..
G (rivolto a me) Valerio è famoso per fare esempi lunghissimi ma inefficaci, nessuno li capisce! Stai a sentire.
V No aspetta. Allora tu hai la ragazza e ti piace. No, scusate, ho scelto l’esempio sbagliato! (scoppia a ridere e comincia a parlare in romanesco) Ahò, ve racconto ‘na barzelletta se volete! Anzi, ‘spetta (indica il calcio balilla): ‘a famo ‘na partita Joe Victor contro Rolling Stone?