“Un documentario su Lampedusa” sono quattro parole che in Italia mettono i brividi: da quando gli sbarchi nel 2008 sono arrivati al loro primo picco massimo (36.000 migranti in un anno), l’isola è diventata terra di reportage, di dibattiti, simbolo di qualsiasi tipo di sentimento si possa avere verso i clandestini – l’accoglienza, l’odio, la solidarietà, l’«aiutarli a casa loro» – in base a chi se ne sta appropriando. Per come siamo abituati, sembra impossibile togliere connotazioni politiche quando si parla di quest’isola, soprattutto se a farlo è un italiano. E invece.
Gianfranco Rosi, dopo la vittoria a Venezia nel 2013 con il documentario Sacro GRA, partecipa al Festival del cinema di Berlino con il documentario Fuocoammare, risultato di un anno di permanenza a Lampedusa e di conoscenza delle persone che vivono sull’isola e che arrivano – ora nella modalità stabilita dall’Operazione Triton, in cui i barconi vengono intercettati ancora in mare aperto e i migranti accompagnati sull’isola dopo un primo soccorso.
Il film si apre con il personaggio che accompagna la visione: Samuele, un ragazzino di 11 anni di Lampedusa, che costruisce fionde per cacciare uccelli (benissimo), studia inglese (maluccio) e parla con la nonna, ma che si troverà in quell’anno di riprese a dover affrontare dei piccoli ridicoli fatti della vita che accompagnano lo spettatore verso una sempre maggiore consapevolezza delle altre vicende dell’isola. È assurdo usare il termine “spoiler” parlando di un documentario, ma descrivere questi «piccoli ridicoli fatti della vita» di Samuele sarebbe una spoilerata imperdonabile – li trovate scritti da altre parti, ma non dovreste rovinarveli.
Attorno a Samuele ci sono gli amici, il padre pescatore e la nonna che ricama e cucina, e poi ampliando il cerchio ci sono il dj radiofonico che raccoglie le richieste degli isolani, la Zia Maria che richiede canzoni tradizionali siciliane in augurio dell’arrivo del bel tempo, il pescatore di ricci che si immerge anche nel mar mosso (che Rosi segue con delle riprese subacquee d’effetto). Poi c’è il personaggio che fa da ponte tra l’isola e i migranti, il Dottor Pietro Bartolo, che quando racconta la sua attività fa un resoconto da medico di guerra. È uno dei pochi a raccontare qualcosa direttamente allo spettatore, insieme ad altri due: un ragazzo nigeriano canta un gospel in cui descrive la sua fuga accompagnato in coro da altri migranti all’interno del centro di accoglienza; un altro naufrago appena salvato, ancora sulla nave militare, spiega con pochissime parole come sono distribuite le centinaia di persone ammassate sui barconi, anche nella chiglia, la “terza classe” dove molti muoiono asfissiati.
Il salvataggio del barcone fatto sulla nave militare, che arriva dopo la seconda metà del film, è tanto inevitabile quanto sconvolgente: sappiamo che prima o poi arriverà quel momento – è cinico dirlo, ma stiamo parlando pur sempre di un documentario su Lampedusa – eppure quando arriva è come se non fossimo preparati alla crudezza della realtà, e nonostante la precisione estetica, si sente che neanche Rosi lo era. Per gli spettatori c’è un prima e un dopo queste immagini, le pochissime girate con il sole in un’ora e mezza di film nuvoloso o notturno, una differenza resa anche con la distribuzione del racconto degli altri personaggi.
I più intransigenti avranno da ridire su questa costruzione un po’ artificiosa per un documentario, ma anche l’estrema cura estetica e l’assenza di spiegazioni avvicina questo lavoro alla videoarte (non vi spaventi questo termine, non è roba da museo). Quando dopo questa sequenza apparirà nuovamente Samuele, gli succederà qualcosa che vi farà sentire così vicini a lui da non sapere più se ridere (cosa che si fa spesso nel film) o tirare un sospiro di sollievo. Desensibilizzati come siamo dalla continua esposizione a notizie di sbarchi e da i toni pietisti o rancorosi della nostra TV, Rosi dimostra che con la sobrietà si può sciogliere anche il pubblico più freddo.