Pier Paolo Pasolini. PPP (pochi ricordano che l’abbreviazione veniva usato per ridicolizzarlo). O Pier Paolo, per tutti, ma solo dopo la morte. E chiamarlo per nome è qualcosa che al regista de La Macchinazione David Grieco non è mai andata giù. Perché per chi l’ha conosciuto, come lui, è una profanazione, una presa in giro. Perché allo scrittore, regista, intellettuale più coraggioso e pieno di talento del dopoguerra, nessuno ha allungato una mano, in vita. Anche solo per stringerla e camminare con lui, in quei sentieri impervi che ha scelto. Non quel PCI a cui la sua omosessualità era invisa almeno quanto l’anticonformismo, non il Potere che lui attaccava da tutti i lati. Neanche la gente, che non ha saputo e voluto capirlo, preferendone il lato più pruriginoso e che poi disse “se l’è cercata”. E allora, Pier Paolo, può e potevano chiamarlo solo i suoi, vestali fedeli di un’eredità che tutti tirano a sé. Lo sappiamo “come diceva Pasolini” è un mantra a cui nessuno rinuncia, per sdoganarsi.
Il punto è che Pasolini è qualcosa di troppo grande. Lo è il suo lavoro, lo è ciò che realizzava, su carta come su pellicola. Lo è la sua guerra contro il Potere, che bombardava a colpi di “Io so”, che si chiamasse governo, senso comune oppure Cefis, il boss dell’Eni che con Petrolio puntava a demolire. E che forse invece ha demolito lui (Cefis, che di Mattei era sostanzialmente il lato oscuro e peggiore, come Lyndon Johnson fu dopo John Fitzgerald Kennedy).
Qualcosa di troppo grande perché chi vi si avvicini, da qualsiasi lato, non si bruci. Si scottò appena, ma la portò a casa, anche per l’intelligente scelta di non proporre un film onnisciente, Marco Tullio Giordana. Si è messo al rogo Abel Ferrara, con quel Willem Dafoe volenteroso ma improbabile e quell’ultimo giorno che non riesce a raccontare né con ispirazione pasoliniana né con la propria. E che tratta con fin troppo rispetto, lui che è un iconoclasta. E non ce la fa neanche David Grieco. Lui, che come tutti gli uomini di buona volontà e alla ricerca della verità, di quell’ennesimo segreto italiano che è la sua morte, non se n’è fatto una ragione, da amico e da artista impegnato cerca di ricomporre i tasselli di una vita spezzata e di una fine assurda, in un thriller politico. Con La Macchinazione il bravo cineasta già apprezzato con l’ottimo e sottovalutato Evilenko, si richiama per impegno politico e uso del genere, agli anni ’70 del cinema. Italiano e americano. E fino a quel punto, tutto va abbastanza bene, sia pure con le difficoltà di un’opera che ha avuto troppi problemi, di budget e di produzione, per trovare i soldi necessari a un impianto strutturale degno della vicenda. Se la cava Grieco nel tirare i fili del complotto che strozza quel genio, alle prese con chi vuole zittirlo, prima artisticamente e poi definitivamente. Anche se il mostro Cefis e la gola profonda (un ottimo, come al solito, Citran) banalizzano un filo il percorso di indagine pasoliniano. Molto meno riuscito è però l’apparato più visionario, quello che cerca di dare una cifra stilistica alla regia di Grieco e corpo ai pensieri del protagonista. Per un momento e grottesco riuscito come il Matteo Taranto che scimmiotta Volonté (mentre ha appena portato a segno il colpo che è al centro del “giallo”), ce ne sono molti, troppi che si perdono. La visione delle gru, come quella della folla con i cellulari, a incarnare il Pasolini post luddista, i giochi di sovra e sottoesposizione per marcare l’entrata in scena dell’autore alla scrivania, perso in un lavoro magmatico che ne totalizza gli ultimi mesi, non risultano efficaci e fanno sì che il lungometraggio perda di forza, di potenza narrativa e visiva. E accanto a questo c’è una scrittura cinematografica che sia nei meccanismi del genere che nei dialoghi, non decolla mai, finendo per promettere allo spettatore rivelazioni che arriveranno con il contagocce. Ci si aspetta il terremoto, ma la terra non manca sotto i piedi. Fino a quel finale che abdica alla sua volontà di rivoluzionare un caso ancora aperto, per trincerarsi dietro quello che abbiamo sempre sospettato.
David Grieco, come il suo maestro, sa e non ha bisogno di prove. Ma lo spettatore necessita di punti d’appiglio e forse anche di un ritratto più pieno di chi ha segnato il nostro modo di pensare, tanto da diventare un aggettivo. E invece ci ritroviamo con un protagonista bidimensionale, all’inseguimento dei propri demoni, che cannibalizza il suo universo (le donne della sua vita vengono ridotte a figure minori e piuttosto stereotipate, la sua passione per i ragazzi di vita sono la “solita” debolezza, senza trovare invece in lui né la passione selvaggia e fisica che lo trascinava fin là, né il fascino antropologico per il sottoproletariato). A tutto questo va aggiunto un difetto che in un eventuale versione per l’estero si perderà: Massimo Ranieri, che pur dimostra talento recitativo e una somiglianza inquietante, non riesce a staccarsi dalla sua napoletanità, così come lo stesso Taranto, fisicamente e scenicamente potentissimo, ma con un romanesco ostentato che sembra essere preso di peso dal Celentano Rugantino che tanto bene è stato parodiato da Max Tortora.
Funzionano alcuni comprimari, come Libero De Rienzo e Alessandro Sardelli, un Pelosi che sarebbe piaciuto a Pier Paolo Pasolini (e nel rapporto con lui, c’è il meglio di questa narrazione cinematografica). Quello che nell’omonimo libro, Grieco, sa rendere con maestria e chiarezza, qui risulta incompiuto. Pasolini fa paura. A noi, che non ne siamo mai stati degni, a chi l’ha conosciuto, per la sua grandezza e complessità, a chi prova a raccontarlo. Troppe contraddizioni e talenti, troppi misteri e geniali intuizioni, da racchiudere in un solo film, in un solo attore, in un solo filone narrativo.
Ma era giusto provarci. Pasolini non va dimenticato. E va ricordato, ripercorso, cercato continuamente. Con lo stesso coraggio che aveva lui. Con la stessa voglia di rischiare che proprio in quel Salò che lui sta montando nei giorni al centro dell’attenzione de La macchinazione, ha dimostrato.
E nello scriverne, il dubbio è anche il critico sia schiacciato da Pasolini. Dal mito che ne ha, dall’incapacità di accettare che sia morto e che sfugga così facilmente di mano a chi cerca di riportarlo a noi.