Il più grande legal drama televisivo è andato in onda nel 1994.
I più agée tra voi (elegantemente non ho detto vecchi) probabilmente mi risponderanno che non è vero, che negli anni ’60 c’era Perry Mason, per non parlare di Matlock negli anni ’80. Eppure, miei cari, nonostante i protagonisti fossero brillanti legali in aule di tribunale, quegli show non erano altro che gialli, con omicidi da risolvere e innocenti da scagionare dal nostro indomito eroe, avvocato difensore dall’incorruttibile tempra morale. Gli esperti di serialità invece citeranno serie tv come Avvocati a New York e Law & Order, in cui importanti questioni sociali vengono sollevate e discusse di fronte ai giudici. Ma la vera rivoluzione avviene nel 1994.
Quel lontano giugno i telegiornali si aprono su un terribile fatto di cronaca: un uomo e una donna sono brutalmente uccisi in una villa a Brentwood, quartiere bene della contea di Los Angeles. Ma qual è la differenza con gli innumerevoli casi di omicidio che riempiono le prime pagine dei quotidiani statunitensi? Che stavolta una delle vittime è Nicole Brown, ex moglie del paladino del football nazionale O.J. Simpson, personaggio amatissimo da tutta America e non solo (chi non si interessa di sport lo ricorderà nella trilogia di Una pallottola spuntata) e figura di riferimento per la comunità nera, uno di quelli che ce l’ha fatta. Simpson viene subito incriminato per omicidio e sarà proprio il suo processo, in onda a ogni ora del giorno e della notte, a creare il nuovo genere televisivo: il crime entertainment in prime time, il più importante legal drama mai trasmesso in tv.
A più di vent’anni di distanza, l’evento che ha plasmato un intero immaginario ritorna sul piccolo schermo, stavolta sotto forma di miniserie, The People Vs OJ Simpson: American Crime Story, da stasera in onda su Fox Crime. A scrivere la coppia di autori Scott Alexander e Larry Karaszewski (già sceneggiatori di Larry Flint: Oltre lo scandalo ed Ed Wood) con un cast d’eccezione, da Sarah Paulson e Cuba Gooding Jr. a John Travolta, qui anche nelle vesti di produttore assieme al Ryan Murphy di American Horror Story, di cui la serie è l’ideale spinoff. D’altronde, a guardare da vicino il sistema legale americano, sempre di orrore si tratta: nell’evolversi del processo contro O.J. si delinea una giustizia schiava dei mass media, in un corto circuito che vede il tribunale trasformarsi, attraverso il linguaggio del racconto televisivo, nel set di un film e, in quanto film, non più centrato su un colpevole a su una vittima, ma su un eroe e un nemico. In questo caso l’eroe è O.J., divenuto, grazie allo stratagemma dei suoi legali nonostante le prove schiaccianti a suo carico, il simbolo di un’America nera perseguitata dalla polizia e bisognosa di un martire per portare all’attenzione i torti subiti (e che purtroppo ancora oggi subisce), mentre il terribile nemico è la procura incarnata dal pubblico ministero Marcia Clark, derisa e ridicolizzata in quanto donna in una carica di rilievo, rea di stare dalla parte sbagliata rispetto al verdetto già decretato dall’opinione pubblica.
La serie riassume fedelmente i fatti, che nella loro complessità e stravaganza sembrano aver assunto per osmosi le stesse caratteristiche della narrazione televisiva in cui sono ricollocati. E così ecco la fuga in auto di O.J. e l’inseguimento della polizia ripresi in diretta tv, la decimazione della giuria rinchiusa in albergo per otto mesi, il massacro mediatico di Marcia Clark per un taglio di capelli, gli errori di valutazione commessi dalla procura, persino la “partecipazione speciale” dei giovani Kardashian, ai tempi in cui nessuno sapeva chi fossero. Il tutto preso e rimasticato nel flusso catodico, tra un programma di cucina e la nuova puntata di Friends. Come Marcia Clark, quella reale, racconta in una sua recente intervista, c’è ancora chi la ferma per strada per dirle: «Quanto mi manca il tuo programma televisivo!».
A oggi nessuno è stato condannato per l’omicidio di Nicole Brown Simpson e Ronald Lyle Goldman – e questo non è uno spoiler.