Chi non ha mai visto I love Radio Rock, il film sulla radio pirata che negli anni ’60 trasmetteva da una nave al largo delle coste inglesi ed era anni luce avanti all’ingessata BBC? Quella stazione esisteva davvero, si chiamava Radio Caroline e uno dei suoi esponenti più famosi era Tony Prince, classe 1944, la cui vita sembra un romanzo.
Ha cominciato come chitarrista, è diventato un dj pirata e d’avanguardia e ancora oggi, nonostante l’età, non pensa alla pensione: gestisce il DMC, società che ha fondato nel 1983 e si occupa di tutto ciò che ruota attorno al djing – i campionati del mondo di scratch sono organizzati da loro, per intenderci. In questi giorni è a Milano per Radio City e International Radio Festival, manifestazioni gemelle e aperte al pubblico che raccolgono emittenti da tutto il mondo in diretta all’Unicredit Pavillion di piazza Gae Aulenti: domenica alle 16.00 chiuderà la rassegna con un incontro in cui ripercorrerà la storia della radio, a modo suo. Gli abbiamo fatto qualche domanda in anteprima.
Qual è la differenza tra la radio di ieri e quella di oggi, secondo te?
Personalmente non la ascolto più così spesso, ormai è cambiato lo spirito. Fare il dj non è più un mestiere, chiunque può creare la propria web radio, magari il tuo vicino di casa ne ha una in camera da letto e tu non lo sai. Da una parte è fantastico, dall’altra è terrificante. Un tempo ascoltavi il tuo dj di riferimento perché lo conoscevi, lo consideravi un amico, sapevi di poterti fidare dei suoi gusti. Ora è tutto più impersonale, i teenager scoprono nuova musica grazie al passaparola o a Spotify. Sai qual è l’unica cosa che salva le radio tradizionali in FM? Il fatto che in macchina, per ora, si possono ascoltare solo quelle.
Ricordi ancora com’è stata la tua prima volta in onda?
Era su Radio Caroline, e mi ca*avo sotto! Già solo arrivarci era un’avventura: dovevi prendere il treno fino alla costa, consegnare il passaporto e imbarcarti su un peschereccio che ti portava in acque internazionali. Prima di allora suonavo in un’orchestrina e facevo il disc jockey negli intervalli tra uno spettacolo e l’altro – motivo per cui il sindacato dei musicisti mi aveva fatto cacciare: odiavano i dischi, pensavano che per colpa del vinile nessuno avrebbe più ascoltato musica dal vivo! – ma non avevo mai fatto radio. Ad insegnarmi tutto sono stati i ragazzi a bordo della Caroline: australiani, canadesi, americani, che avevano già lavorato in altre radio libere e conoscevano i segreti del mestiere
Ad esempio?
Dalle cose più semplici, come mixare, creare i propri jingle o editare un nastro, fino ai massimi sistemi: chi ti ascolta vuole che tu parli a lui, e non a lui e ad altri centomila che per caso sono sintonizzati sulla stessa stazione in quel momento. Devi far sentire speciale ognuno di loro, renderla una conversazione intima.
Dal poetico al pratico, una domanda che tutti ci siamo posti: ma nessuno a Radio Caroline soffriva il mal di mare?
Diciamo che c’era un continuo ricambio di dj che dopo un paio di giorni a vomitare capivano che quella vita non faceva per loro… Per mia fortuna io ero un lupo di mare! Quando finivamo in mezzo a una tempesta i miei problemi erano più che altro tecnici, perché la barca si inclinava così tanto che la puntina si sollevava dal vinile e non riuscivamo più a suonare musica in diretta. In quei casi avvisavamo gli ascoltatori che avremmo trasmesso dei nastri pre-registrati fino a quando il tempo non fosse migliorato. A volte però non riuscivamo a fare nemmeno quello: una notte c’era una bufera così forte che l’attrezzatura mi è crollata addosso mentre cercavo di annunciare una canzone. I turni, comunque, erano di due settimane a bordo e una a terra, che di solito trascorrevamo facendo comparsate in discoteca e sbronzandoci con i Beatles, gli Stones e i Kinks: ormai eravamo famosi, quasi più di loro. Era meraviglioso essere una star della radio a quei tempi.
Che ne pensi del film ispirato alle vostre imprese?
I personaggi non ricalcano i veri dj di Radio Caroline, ma molte delle cose che succedono nel film sono basate su fatti reali, tipo la nostra abitudine di raggiungere a nuoto le barche che passavano di lì per chiedere le canzoni che avrebbero voluto ascoltare. E la scena in cui due dj si arrampicano sull’albero maestro è successa davvero a me e Tony Blackburn, anche se un altro motivo. Si era sganciato il cavo della nostra antenna, da due giorni non riuscivamo a trasmettere e il tizio che doveva ripararla non arrivava. Alla fine abbiamo deciso di salire e aggiustarla noi, senza corde di sicurezza perché non c’era modo di agganciarle: quelli di sotto erano terrorizzati!
Non ti penti mai di avere mollato la carriera di musicista per quella di speaker, quindi?
Mi chiedo spesso cosa sarebbe successo se avessi continuato: dopo che sono diventato un dj i Beatles sono esplosi e tutto è cambiato, molte delle band con cui suonavo hanno ottenuto un contratto discografico. Ma conosco i miei limiti e so di aver preso la decisione giusta.
Qual è il tuo consiglio per i dj di oggi?
Cercate di essere originali, di suonare musica diversa: remix, mash-up, versioni introvabili, un po’ come facciamo noi con il DMC. Creare combinazioni inedite alimenta le novità.