Se mai ci sarà, il processo agli attentati dell’11 settembre si terrà in una distesa polverosa in mezzo ai Caraibi, all’interno di una struttura di massima sicurezza a cui si può accedere solo con un taccuino e una penna e assistere solo da dietro un vetro triplo. Chiunque voglia seguire dal vivo il processo deve essere approvato dall’Office of Military Commissions del Pentagono, l’autorità competente sul tribunale di guerra in terra straniera ubicato nella Baia di Guantanamo. Durante le udienze, ogni parola pronunciata in aula viene diffusa nella sala visitatori dopo essere stata filtrata dagli altoparlanti con 40 secondi di ritardo, per permettere al giudice di verificare che non venga rivelata alcuna informazione classificata. Computer, telefoni o apparecchiature per registrare non sono ammessi, e neanche le telecamere. Nemmeno camicie senza maniche e scarpe aperte.
Questa specie di fortezza chiamata Camp Justice, che verrà smantellata e rispedita negli Stati Uniti quando e se Guantanamo verrà chiusa, è stata costruita nel 2008 per ospitare quelli che secondo i militari erano “prigionieri di alto valore”. Al momento ce ne sono 14, solo 5 dei quali, ovvero l’organizzatore dell’11 settembre Khalid Sheikh Mohammed e i suoi 4 complici, interessano davvero alla maggior parte dei cittadini americani. Sono passati esattamente 15 anni da quando in questa squallida base navale perennemente immersa dal caldo soffocante nella costa sudorientale di Cuba sono arrivati i primi prigionieri della Guerra al Terrore (che il governo americano definiva allora come oggi “detenuti”, ovvero persone tenute in custodia senza mai essere state ufficialmente arrestate prima o dopo la presa in consegna).
Su 780 prigionieri, 538 sono stati rilasciati dal Presidente Bush prima della fine del suo mandato. Il Presidente Obama ne ha rilasciati altri 135 e ha annunciato di voler chiudere Guantanamo prima di rimettere il suo mandato, ma al momento in cui questo articolo è stato scritto a Guantanamo ce n’erano ancora 107. Ognuno di loro costa all’anno circa 3,4 milioni di dollari l’uno, contro i 78mila dollari di un detenuto di una prigione militare o federale negli Stati Uniti. Di 48 uomini è stato autorizzato il rilascio, la maggior parte durante la presidenza Bush. Altri 49 sono in una specie di purgatorio conosciuto come “detenzione indeterminata”, tra i quali ce ne sarebbero 30 che secondo il governo non possono essere processati, ma sono troppo pericolosi per venire rilasciati. Solo 10 prigionieri di “alto valore”, un eufemismo usato per quelli catturati dalla CIA, sono in attesa di processo. Tre sono già stati condannati, due dei quali dopo essersi dichiarati colpevoli, sette sono al momento sotto processo anche se il caso del presunto organizzatore dell’attentato al cacciatorpediniere USS Cole è stato congelato a tempo indeterminaro e il processo per l’11 Settembre si è arenato da quando gli imputati sono stati chiamati in giudizio la prima volta nel 2012.
Guantanamo si sarebbe dovuto chiudere sei anni fa, il 22 gennaio del 2009, quando il Presidente Obama, che aveva fatto di Guantanamo un tema centrale della sua campagna elettorale, nel suo secondo giorno di governo ha firmato un ordine esecutivo che imponeva ai militari la chiusura della base entro la fine dell’anno. A Camp Justice, appena è arrivata la notizia, gli avvocati che si stavano preparando al processo dell’11 Settembre hanno festeggiato, si dice addirittura ballando la conga ubriachi. Ma con Obama impegnato a fronteggiare l’opposizione durissima dei Repubblicani, in particolare sull’Affordable Care Act e sulla riduzione dell’intervento militare in Iraq e Afghanistan, il destino di un centinaio di musulmani è finito di nuovo nel dimenticatoio.
Lo scorso novembre l’amministrazione Obama avrebbe dovuto rilasciare un piano a lungo termine per chiudere Guantanamo, ma a dicembre la Casa Bianca non aveva ancora presentato nessun progetto. L’1 dicembre del 2015 il Wall Street Journal ha scritto che il governo ha rifiutato la stima fatta dal Pentagono dei costi di trasporto e mantenimento dei prigionieri negli Stati Uniti, che ammontava a 600 milioni di dollari. E non c’è ancora una stima ufficiale.
Il carcere si trova all’interno della Naval Station di Guantanamo Bay, come viene chiamata, la base navale in terra straniera più antica del paese. Ospita 6mila persone tra effettivi dell’esercito e appaltatori, che vivono in quella che sembra una piccola cittadina americana del 1982. Ci sono impeccabili strutture residenziali, una scuola, una chiesa, tre negozi Subways, un supermercato in stile Walmart, un cinema all’aperto e una palestra. Questa Guantanamo, abitata anche dai 2.100 membri della Joint Task Force (JTF), non ha niente a che vedere con il tribunale di guerra e la prigione, così isolate dal resto della struttura che potrebbero tranquillamente essere sulla Luna. Non è un caso se l’amministrazione Bush considerava Guantanamo «l’equivalente legale dello spazio», come ha detto un funzionario della Casa Bianca, una terra di nessuno extragiudiziaria in cui interrogare i nemici e sperimentare «il peggio del peggio».
Quasi tutti i detenuti sono stati accusati di “fornire supporto materiale ai terroristi”, un’attività che il Congresso ha definito “crimine di guerra” nel 2008, anni dopo che gli atti presunti sarebbero stati compiuti. La Costituzione vieta espressamente al Congresso di criminalizzare qualsiasi cosa in modo retroattivo, quindi ogni sentenza di colpevolezza emessa a Guantanamo è stata in seguito ribaltata dalla Corte Federale. Durante la campagna elettorale, Obama ha biasimato l’operato delle commissioni militari, ma una volta eletto ha deciso di non abolirle e di presentare una riforma (contenuta nel Military Commissions Act del 2009), che apparentemente ha riportato i tribunali di guerra in linea con lo stato di diritto. La legge ha cambiato la definizione “combattenti irregolari” creata nell’era Bush con “belligeranti irregolari” a cui viene garantito un diritto di difesa. La nuova legge proibisce le prove raccolte con la tortura e vieta l’uso delle prove “per sentito dire”. Peraltro, l’uso delle prove indirette era già una forzatura della legge, perché è proibito in qualsiasi tribunale civile o militare americano.
Secondo gli avvocati, la tortura è “il peccato originale di Guantanamo”, ed è l’elemento che definisce ogni aspetto del tribunale di guerra. Lo sforzo del governo di nascondere le torture subite da prigionieri come Khalid Sheikh Mohammed o dal suo coimputato Mustafa Al-Hasawi, che è stato sottoposto alla “reidratazione per via rettale” dalla CIA e oggi può stare seduto solo su un cuscino, ha portato alla creazione di una sistema di regole che non ha precedenti nella storia dei tribunali americani. Ogni singolo documento che viene scambiato durante l’incontro tra un detenuto e il suo avvocato viene sottoposto a verifica per evitare il “contrabbando di informazioni”. Ogni persona presente in aula, compresi traduttori e trascrittori, deve ricevere un nulla osta di sicurezza e il materiale processuale, che di solito viene condiviso tra accusa e difesa, viene consegnato agli avvocati della difesa solo a discrezione del Governo.
Gli uomini che stanno per comparire davanti al tribunale di guerra sono i più fortunati, perché almeno verranno processati.
Quasi tutto è classificato, ed è impossibile per gli imputati visionare o discutere con gli avvocati, anche quando riguarda il loro caso specifico. «Fino a poco fa ci veniva detto chiaramente che, se i dettagli delle torture fossero stati resi pubblici, la sicurezza nazionale sarebbe stata in grave pericolo», dice David Nevin, avvocato di Mohammed. «Prima ci veniva detto che, se fosse stata diffusa qualsiasi dichiarazione dei nostri clienti, la sicurezza nazionale sarebbe stata in grave pericolo. A quel punto ho chiesto: “Quindi se dovesse dire che gli piace il burro di arachidi, sarebbe un’informazione classificata?”. Mi hanno risposto di sì, chiaro e tondo». Oggi i pensieri di Mohammed e dei suoi compagni non sono più classificati, ma i dettagli di quello che hanno subito sì, anche dopo la pubblicazione del report sulle torture del Senate Select Commitee on Intelligence’s Torture nel dicembre del 2014: «Adesso la questione è capire chi ha torturato e dove sono avvenuti i fatti», dice Nevin. «C’è una serie di livelli di sicurezza messi uno sopra l’altro. È una situazione assurda: queste persone hanno subito torture, quindi possiedono informazioni classificate. In pratica è come se i loro stessi ricordi fossero di proprietà del governo degli Stati Uniti».
Gli uomini che stanno per comparire davanti al tribunale di guerra sono i più fortunati, perché almeno verranno processati. Al momento della stesura di questo articolo, a Guantanamo ci sono 97 uomini che non vedranno mai l’aula di un tribunale, né verranno accusati di un crimine; 6 di loro sono rinchiusi qui da quando la prigione è stata aperta nel 2002. Sono una parte fondamentale della storia di Guantanamo, e sono anche quelli che gli americani tendono a dimenticare più facilmente. Il Governo ha favorito questa situazione riempiendo Gitmo di membri della Guardia Nazionale e riservisti, che si alternano in turni di nove mesi e sono stati programmati per considerare gli uomini che hanno in custodia non solo pericolosi, ma anche colpevoli.
È la presunzione di colpa stabilita durante l’amministrazione Bush, che è rimasta relativamente invariata anche dopo l’introduzione da parte della Casa Bianca nel 2009 di una procedura speciale di revisione dei casi, per determinare chi sia ogni singolo detenuto e come procedere nei suoi confronti. Ciononostante, il messaggio che tutti gli uomini in custodia a Guantanamo sono in qualche modo dei criminali viene rinforzato lungo la catena di comando fino agli ufficiali, che hanno molto più accesso alle informazioni sui prigionieri dei loro sottoposti. «Non è mio compito giudicare se uno è innocente o colpevole, ma sono fermamente convinto che queste persone hanno fatto cose che non avrebbero dovuto fare e per questo motivo si trovano qui», dice il Colonnello David Heath, comandante del Joint Detention Group che coordina le attività della prigione. Heath mi dice anche che sostiene pienamente la decisione del Presidente Obama di chiudere Guantanamo e che, «con le condizioni appropriate», gli americani non hanno nulla da temere in caso di trasferimento dei prigionieri negli Stati Uniti. «Ma la mia responsabilità è mandare avanti questa struttura finché qualcuno non mi dirà di mettere queste persone su un aereo e mandarle in un altro posto», dice.
Per ragioni che non sono chiare, come quasi tutto a Guantanamo, i giornalisti che sono stati autorizzati a seguire un’udienza non possono anche visitare il campo. Devi andartene da Guantanamo e ritornare. Quindi io torno a Gitmo all’inizio di ottobre, una settimana dopo aver lasciato Camp Justice, e questa volta vengo sistemato in una villetta di uno dei quartieri residenziali simili alla provincia americana. Nei due giorni successivi, ogni mattina vengo prelevato da uno dei quattro soldati della Guardia Nazionale, tutti ragazzi poco più che 20enni, che mi scortano a bordo di un furgone in una zona appartata della base nascosta dietro a una collina che alcuni colleghi giornalisti hanno cominciato a definire Detention Center Zone. È il feudo della JTF, una base dentro la base con la sua mensa, il cinema, il minimarket, un consultorio psichiatrico, una cappella e anche una zona relax dove i membri della Polizia Militare, stressati dai turni di 12 ore nelle celle, possono rilassarsi su poltrone massaggianti o giocare con i cani del programma di terapia antistress. Se ci sono settori simili a un gulag, noi non possiamo vederli. Ai giornalisti e alle delegazioni inviate dal Congresso viene mostrata una versione ripulita dell’Esperienza Guantanamo.
Il momento più interessante della visita, e in fondo l’unica ragione per farla, è una discussione sulla pratica dell’alimentazione forzata, o come viene chiamata qui “alimentazione enterica”, che è diventata un problema nel 2013 quando il 60% dei detenuti di Guantanamo ha iniziato uno sciopero della fame. Una forma di protesta che i militari hanno definito “guerra ad armi impari”. «Forse sono talmente depressi per il fatto che dal 2006 sono stati dichiarati trasferibili, ma non sono mai stati trasferiti, che preferiscono morire piuttosto che rimanere a Guantanamo», dice Wells Dixon del Center for Constitutional Rights, un’organizzazione che tra gli altri rappresenta anche Tariq Ba Odah, che ha fatto lo sciopero della fame per otto anni. Oggi pesa 33 chili.
L’alimentazione enterica è considerata una forma di tortura dalle associazioni dei medici, e per molti anni gli avvocati di Guantanamo hanno pressato il governo per mostrare le 11 ore di video che mostrano il trattamento subito da Abu Wa’el Dhiab, un ex detenuto rilasciato nel 2014 per ordine di un giudice federale. Tre ufficiali di Guantanamo hanno dichiarato separatamente che diffondere quelle informazioni avrebbe potuto «causare danni alla sicurezza nazionale» e hanno classificato i nastri come «materiale segreto». I dottori militari spiegano che i prigionieri sono autorizzati a digiunare finché non perdono il 15% del loro peso, mostrano segni di disidratazione o malfunzionamento degli organi, dopodiché la procedura richiede che «optino per essere alimentati in modo enterico, come parte della loro pacifica forma di protesta». Dato che hanno già optato per non mangiare, non è chiaro se essere costretti a ricevere il cibo sia un’opzione. Penso si tratti più di una decisione su come ricevere il trattamento, se andando da soli nell’ambulatorio medico a farsi mettere un tubo nel naso oppure trascinati a forza dalla propria cella e legati a una sedia. Tra gli effetti collaterali di questa pratica c’è la costipazione cronica e la paralisi dello stomaco. Nel caso di Ba Odah, il suo corpo ha iniziato a rifiutare l’alimentazione per via nasale. Il problema è stato risolto «con professionalità», insiste lo staff medico. Al momento, meno di 10 uomini sono sottoposti all’alimentazione per via nasale, ma non possiamo esserne sicuri. I militari hanno smesso di diffondere dati nel dicembre del 2013. Venire inseriti in questa lista è un segno di “inadempienza”, mi dicono durante un breve giro all’interno di Camp Five, la prigione di massima sicurezza dove sono rinchiusi dai 40 ai 50 detenuti “inadempienti”. Non riesco a vederne neanche uno.
Un ufficiale mi indica il soffitto macchiato di escrementi secchi: «I resti di uno splashing»
I prigionieri di Camp Five sono monitorati da due guardie che pattugliano il blocco e li controllano ogni tre minuti. Ricevono il cibo attraverso un buco nella porta che le guardie chiamano “splash box”. Lo “splashing”, mi spiegano, è un’altra forma di protesta: il detenuto riempie una bottiglia di acqua o una tazza di polistirolo con feci, urine, sangue, vomito e altri liquidi corporei e lo tira alle guardie per «manifestare il suo disprezzo verso le procedure di detenzione». Un ufficiale mi indica il soffitto macchiato di quelli che mi sembrano escrementi secchi: «I resti di uno splashing», mi dice, aggiungendo che ripulirlo è praticamente impossibile. Tutto viene messo nello splash box: acqua, cambio di vestiti, libri. Le guardie non hanno nessun tipo di contatto fisico con i detenuti. Il tour è stancante e frustrante, e fondamentalmente inutile, se non nel rendere evidente quello che secondo me è lo scopo principale di questa struttura: cancellare l’esistenza dei detenuti. Eppure esistono. Per circa 15 minuti ci viene permesso di osservarli da dietro un vetro, mentre visitiamo Camp Six, una prigione con un livello di sicurezza medio in cui “detenuti altamente collaborativi” vivono in blocchi comuni. Un paio di uomini vestiti con abiti logori vagano per una stanza con delle cuffie in testa per ascoltare la grande televisione piazzata sopra di loro. Un uomo più anziano con un copricapo da preghiera sfoglia un libro voluminoso. Due guardie a volto coperto stanno in piedi dietro a un carrello pieno di libri e li distribuiscono con cautela ai detenuti attraverso le sbarre. L’effetto è quello di osservare degli animali allo zoo. La nostra richiesta di assistere alla preghiera dei detenuti viene rifiutata, così come quella di poter incontrare gli insegnanti, i terapeuti, gli avvocati o chiunque altro possa avere una interazione significativa con loro. La spiegazione che viene sempre data è una generica “regola”, cosa che capisco essere un eufemismo in un luogo dove un numero considerevole di persone sono tenute in custodia senza essere mai stati accusati. A molti è stato riconosciuto già da molto tempo il diritto di essere rilasciati, ma non hanno idea se o quando questo avverrà.
L’ultima tappa del tour è Camp X-Ray, il famigerato luogo (oggi chiuso) in cui sono stati custoditi i primi detenuti di Guantanamo. È un posto che tutti ricordano, anche se è stato in attività solo per 92 giorni. I prigionieri venivano tenuti in gabbie per cani, mentre questi ultimi dormivano in canili attrezzati con aria condizionata: «Gli unici ad avere l’aria condizionata qui erano i cani», mi dice un sergente, recitando un copione secondo cui anche gli agenti di custodia soffrivano molto per il caldo. Oggi Camp X-Ray è ricoperto dalla vegetazione, rami e foglie spuntano dalle gabbie vuote, ma sembra ancora un posto orribile. Le stanze degli interrogatori mi ricordano Abu Ghraib. Lo dico al sergente, ma lui non sa di cosa sto parlando. Guantanamo è stato l’incubatore degli abusi applicati negli interrogatori che sono poi stati esportati a Bagram e Abu Ghraib in Iraq, e poi in centri di detenzione sparsi in tutto il mondo. Ma il sergente aveva 10 anni quando queste cose sono successe. «Ce ne hanno parlato durante l’addestramento», mi dice, «l’unica cosa che ci ripetevano era: non scattate fotografie».
«La notte in cui è stata annunciata la vittoria di Obama», dice Carol Rosenberg, una reporter del Miami Herald che si occupa di Guantanamo dal 2002, «i prigionieri hanno cominciato a cantare: “Obama, Obama”, facendo impazzire le guardie. Mi ci sono voluti tre viaggi per scoprirlo». In 14 anni, Rosenberg ha passato più di 1000 notti a Guantanamo, coprendo le udienze delle commissioni militari e raccontando gli scioperi della fame, i suicidi e la disperazione silenziosa dei prigionieri anche attraverso una cronaca dettagliata pubblicata sul sito dell’Herald. La sua meticolosa ricostruzione delinea una storia molto più oscura, e veritiera, di Guantanamo. Svela i costi enormi del mantenimento del Detention Center Zone e mette a nudo l’insensatezza e la futilità del tribunale di guerra.
A Guantanamo sono successe cose terribili e contrarie ai valori americani dopo l’11 Settembre. Rosenberg e gli uomini che lei definisce “prigionieri” ne sono stati testimoni. Gli abusi e gli interrogatori brutali non ci sono più, ma continua la tortura silenziosa di essere imprigionati senza assistenza legale in un posto sperduto. Gitmo trasuda la sua disgustosa e scomoda verità. È impossibile dimenticare che questo luogo dimenticato e nascosto agli occhi dell’opinione pubblica è soprattutto un luogo di sofferenza. Una delle storie che Rosenberg ha raccontato proviene dal purgatorio di quel gruppo di “prigionieri di guerra”, o come li definisce lei “prigionieri per sempre” che sono stati giudicati “troppo pericolosi per essere rilasciati”. Le accuse rivolte contro di loro sono ancora avvolte nel mistero.
Carlos Warner, un avvocato che rappresenta alcuni detenuti di Guantanamo ha seguito il caso di Muhammed Rahim al-Afghani, un “prigioniero per sempre” di Camp Seven. Ha scelto di assumere l’incarico con «un approccio dadaista», dato che tutto a Guantanamo è completamente irrazionale: «Bisogna fare qualcosa per attirare l’attenzione della gente» dice, «il 60% dei Democratici ritiene che Guantanamo debba rimanere aperta, il che vuol dire che dobbiamo lavorare per fare arrivare il messaggio. Se cominciassero a considerare persone come Rahim degli esseri umani, forse presterebbero attenzione anche a quello che gli è successo».
Rahim è stato l’ultimo prigioniero ad arrivare a Guantanamo nel marzo del 2008 dopo aver passato sette mesi nelle prigioni segrete della CIA, dove, secondo un’indagine del Senato, è stato sottoposto a diversi abusi, tra cui la privazione del sonno per più di cinque giorni consecutivi, ammanettato e con indosso un pannolone. Nessuna di queste misure coercitive ha prodotto informazioni utili. Il Governo ha rilasciato un comunicato stampa a proposito di Rahim, descrivendo nel dettaglio la sua attività nemica, ma si è poi scoperto che era il resoconto delle azioni di un’altra persona. Secondo Warner è un esempio della confusione da parte del Governo: il rapporto descrive un affiliato di basso livello di Al Qaida e non, come si dice, uno stretto collaboratore di Osama bin Laden con: «Legami con Al Qaida in tutto il Medio Oriente». Warner ha inoltrato una richiesta di habeas corpus chiedendo il suo rilascio, e il governo ha risposto con un rapporto che lo descrive come un membro del circolo ristretto di Bin Laden, basato principalmente sulle dichiarazioni di altri due prigionieri di Guantanamo e di un informatore che è stato probabilmente sottoposto a tortura. Secondo Warner non ci sono prove che Rahim sia collegato a Bin Laden. Suo fratello Basit, che ho intervistato via Skype dalla sua casa a Londra, dice che Rahim ha effettivamente combattuto in Afghanistan, ma contro i sovietici e ha anche lavorato per la CIA: «L’aspetto più paradossale è che, quando è stato arrestato dall’ISI (il servizio segreto del Pakistan), la prima cosa che Rahim ha chiesto è stata di parlare con la CIA», mi spiega Warner, «si fidava di loro, perché aveva lavorato per la CIA e pensava che potessero aiutarlo».
Qualunque sia la verità a proposito di Rahim, il governo gli ha detto che non sarà mai accusato o processato. Warner dice che non ci sarà mai nemmeno un riesame del suo caso da parte del Periodic Review Board che decide sulla detenzione a Guantanamo, dato che a nessun detenuto considerato di “alto valore” viene concesso. Warner spera di convincere il governo che l’unico elemento che rende Rahim di “alto valore” è il fatto che è stato testimone della propria tortura. Nel frattempo, Rahim scrive a Warner dei brevi messaggi, alcuni dei quali ricordano gli haiku, in cui parla di argomenti che spaziano da LeBron James a Donald Trump, a Caitlyn Jenner (a cui suggerisce di usare spray abbronzante per le gambe). In un messaggio del 2013, Rahim ha detto che legge Rolling Stone. Non molto tempo fa, in un altro messaggio inviato a Warner, ha citato Camus: «L’unico modo per affrontare un mondo senza libertà è diventare talmente liberi che la nostra stessa esistenza rappresenti un atto di ribellione». Poi ha scritto: «Io sono qui».