Partiamo dalla fine dell’intervista, per Elisa la prima di una serie che accompagna l’uscita di On, il nuovo album. Sono quasi le 22 di una domenica sera di fine inverno. Sto per salutare e scappare via, tra mezz’ora iniziano a suonare le Savages in un locale non lontano da dove ci troviamo. «Che fanno le Savages?», mi chiede Elisa. «Punk», le rispondo. «Sì, ci sta proprio un concerto così, stasera». E si va. Perché, come potrete intendere leggendo le risposte di Elisa in queste pagine, tra punk ci si intende.
Non possiamo non partire dalla copertina: è un gatto vero o è un gatto finto?
È un gatto finto.
Esistono due tipi di gattino su Internet: quello che fa ridere e quello che fa tenerezza. Questo a che categoria appartiene?
Alla seconda.
In realtà il tuo è più un disco-tigre che un disco-gatto, se mi passi l’espressione.
Mmmh, in che senso?
Nel senso che è un album più fisico e immediato rispetto a L’anima vola. Mi chiedo se diventare adulti possa significare anche comunicare in modo più diretto e chiaro. È così?
Sì, assolutamente. C’è stata una sensazione che mi ha accompagnato durante la scrittura del disco. M’interessava un discorso introspettivo, ma volevo comunicarlo all’esterno, volevo arrivare al dunque, anche perché non avevo tempo. Dovevo essere immediata.
Però i tuoi pezzi restano molto complessi e costruiti. Bad Habits inizia con un organo e delle timbriche algide, molto contemporanee. Che cosa stai ascoltando ultimamente?
Con l’esperienza in tv ad Amici ho fatto molto più i conti con quello che sta succedendo nel mondo: quello che va, quello che si ascolta in giro, cosa c’è in classifica, come si costruisce un brano moderno. Scrivo canzoni da vent’anni e con questi nuovi pezzi ho cambiato i miei codici di scrittura. Mi è successo dopo aver assorbito un sacco di musiche nuove, dopo aver cercato di capire che cosa succede. Era un po’ il lavoro che dovevo fare con i ragazzi di Amici. Da tutte queste spinte poi è nato il disco nuovo. Ho ascoltato alcune cose trap, Sia, l’ultimo album di Beyoncé, altre indie. E poi ci sono io, con le mie radici, che sono prevalentemente black: Aretha Franklin e Otis Redding. Lì è dove c’è il mio istinto, le mie radici appunto.
A proposito di trap, che hai detto di aver conosciuto grazie a Stash dei Kolors: è un genere con un immaginario molto lontano dal tuo mondo…
In realtà, ci sono arrivata in modo abbastanza superficiale. Non è che abbia fatto un tuffo, un deep dive nella trap. Quello che mi piace è come ti fa sentire. Mi mancava sentirmi coinvolta in modo così fisico da un genere. La trap incarna alcune caratteristiche, alcuni umori, che un tempo magari appartenevano a della roba molto grintosa, con un sacco di chitarre.
Hai duettato con Fabri Fibra in Dagli sbagli s’impara, però non hai mai veramente rappato. È una possibilità che escludi?
A dire la verità ho un vecchio amore per il rap, nel senso che lo ascoltavo quando avevo 18 anni: gli House of Pain, gli Assalti Frontali. E poi ero amica di Frankie hi-nrg e Riccardo Sinigallia. Nel 1998 abbiamo fatto una roba insieme, La Comitiva. Aggiungi che da piccola andavo in skate, un altro motivo di empatia col rap.
E collezioni vecchie cartoline di surfisti.
Mi affascina quell’immaginario. I Sublime, Gwen Stefani, i Beach Boys.
Ma ci vai sul surf?
No, faccio solo freeride con lo snowboard, sulla neve fresca. E vado sul laser, una di quelle barche a vela sottilissime, dove stai con metà corpo fuori dalla barca.
In No Hero canti “non sono un eroe, non posso saltare da un palazzo all’altro, non posso deviare i proiettili, ma posso aiutarti ad attraversare la notte”. Ho tradotto un po’ liberamente, ma il concetto è quello. Chi sono i tuoi eroi?
I miei eroi oggi sono, sicuramente, la famiglia e alcuni pochi amici intimi. Mio nonno soprattutto. E poi Bob Marley. Mio nonno e Marley sono due eroi che continuano a essere tali per me, anche se non ci sono più.
Hanno qualcosa in comune?
La scialla! Tutti e due la buttavano comunque sul ridere. Erano persone positive. Magari avevano i loro problemi, ma non li facevano pesare sugli altri. Mio nonno è stato un partigiano, deportato, ed è riuscito a tornare a casa. Un sopravvissuto.
Festeggi il 25 aprile?
Non particolarmente, il mio atteggiamento è sempre stato apolitico, ma mi sto avvicinando a certi temi, per senso del dovere. Sto cercando di capire, anche per scoprire da dove veniamo.
Dopo aver parlato di eroi, chi sono invece i codardi oggi?
Quelli di sempre, quelli che si nascondono. I social mi piacciono perché una certa categoria di persone la sgami subito.
A proposito di social: “Manchi molto, come un pezzo dei Prodigy senza la cassa”. È il testo di un messaggino che ti ha spedito tuo marito e che hai postato su Facebook.
Ho ascoltato molto i Prodigy, soprattutto quelli della prima ora, mentre Andrea, mio marito, forse apprezza anche i loro ultimi dischi, è un loro fan. Anche la canzone di qualche anno fa, quella che suonava tipo “Succo, succo di peeeraaa” (canticchiando sulla melodia di Invaders Must Die, pezzo dell’omonimo album del gruppo inglese, nda). La cantavamo sempre in vacanza.
Devi fare la cover Succo di pera, assolutamente… No Hero in questo momento ha oltre 5 milioni di visualizzazioni. Tu che cosa cerchi quando vai su YouTube?
Faccio una premessa: lavoro tantissimo, vivo a Monfalcone e ho due bambini. Di conseguenza la mia vita sociale fa abbastanza pena. E, per inciso, non sono una di quelle che dice: “Sono contenta così”. No, mi piacerebbe fare anche altro, ma non ho tempo. Per cui YouTube mi serve per seguire gli artisti che m’interessano e per avere un contatto con l’esterno. Mi vedo un sacco di cose, interviste, pezzi di concerti. O per ascoltare canzoni: da Antony and the Johnsons e FKA Twigs fino a robe vecchie, soul o surf.
A proposito di cose vecchie, c’è un pezzo nel disco – Love Me Forever – che hai scritto nel 1991, a 14 anni, due anni prima d’incontrare Caterina Caselli e firmare il tuo primo contratto. Qual è l’attualità di questo pezzo?
Ho sentito che nell’aria c’era un ritorno del soul in una chiave che amo molto, quella di certe melodie semplici, alla Phil Spector, Ronettes, Beach Boys. Canzoni semplici, ma perfette. Qualcosa che a me strega davvero. Ho ritirato fuori questo pezzo, scritto a 14 anni quando sentivo le Ronettes, perché mi è sembrato giusto in questo momento storico.
Hai visto Vinyl, la serie prodotta da Scorsese e Mick Jagger? C’è la storia di un cantante blues, ma non vorrei spoilerarti…
Tanto non ho mai tempo di vedere niente.
Allora te la racconto: un cantante blues presenta il suo repertorio a un produttore, che però gli dice che il blues non ha mercato. Allora il produttore lo convince a mettere da parte quelle canzoni, in attesa del momento buono.
Sì, anche per me è stato un po’ così. Mi sembrava che, dopo tanti anni, questo pezzo ora potesse avere la sua chance.
Cosa rimpiangi degli anni ’90?
In realtà, penso che negli ultimi due anni si respiri una libertà che respiravo anche allora. Questo momento somiglia a certi anni ’90, in termini di entusiasmo ed energia creativa. Come un cerchio che si chiude. Anch’io mi sento più pronta a mostrarmi per quello che sono.
Ballerai sul palco? Il disco nuovo si presta a coreografie scatenate.
Probabilmente un po’ sì, ballerò, ma non so se ci saranno coreografie. Il ballo fa parte di me anche se non l’ho mai fatto molto vedere. Mia madre, che faceva la parrucchiera, insieme ad altri colleghi aveva organizzato degli spettacolini in provincia, con coreografie e momenti di cabaret che citavano le icone pop. Perfino David Bowie. Era una cosa molto eccentrica per un gruppo di parrucchieri della provincia friulana. Devo dirti che mi ha influenzato.
Agli esordi il tuo immaginario era identificato con la dimensione degli elfi, dei folletti. È un luogo comune?
È una versione un po’ semplicistica della mia storia, anche se adoro Il signore degli anelli e non nego quella dimensione un po’ fatata. Oggi mi sento felice: mi sento più un mix di tante cose, che va oltre quell’immaginario, senza perderlo.
Beh, è una cosa che si percepisce molto nel disco e si sente soprattutto nei pezzi in inglese.
Sono d’accordo. Questa è una faccenda un po’ controversa. L’italiano è la mia lingua, ma l’inglese è la lingua in cui ho imparato a cantare. Quando lavoravo nei pianobar, feci un corso di dizione italiana per cantare in modo più corretto. L’inglese è venuto da solo, l’italiano l’ho dovuto cercare.
Che cosa ascolti oggi di musica italiana?
Marco Mengoni, Francesca Michielin, i Verdena, da sempre, i Negramaro. E poi cose un po’ più vecchie, come gli Scisma di Rosemary Plexiglass.
Sarebbe bella una collaborazione con i Verdena.
Non ho mai osato chiederglielo, ma loro sanno che li amo. Vado sempre a vederli quando vengono a suonare in Friuli.
Rain Over My Head è stata scritta due giorni dopo il tuo matrimonio, a settembre. Scusa la domanda, ma non siete andati in vacanza tu e Andrea?
No, non siamo andati! La verità è che due componenti della nostra band, Kurt e Victor, sono americani ed erano qui in Italia per il nostro matrimonio. Per cui ne abbiamo approfittato. Ci siamo presi un solo giorno di vacanza e due giorni dopo le nozze siamo andati a registrare allo studio York di Capodistria, gestito da un tizio sloveno, spaziale, con gli stivali texani, con una band negli anni ’70.
Ti capita ancora di ascoltare Otis Redding e Aretha Franklin?
Mamma mia, tutto il tempo.
In casa?
Anche. Ma soprattutto nell’appartamento, vicino a casa, che ho preso in affitto negli ultimi anni: c’è un pianoforte, uno stereo, degli specchi, una stanza dove ho messo un pavimento per ballare, una cucina. Non è uno studio, è più un posto dove ascoltare musica, come facevo da ragazza. Sempre in orari da ufficio, dalle 9 alle 17, come ha detto Nick Cave in un’intervista. Quando l’ho letta non potevo crederci: Nick Cave che ogni giorno va nel suo ufficio e stacca alle 5 precise.
Se lo fa Nick Cave, tutto è possibile.
Siamo in tanti a pensarla così.
Hai visto l’omaggio di Beyoncè alle Black Panthers durante il Superbowl?
Meravigliosa, incredibile. Mi ha fatto sentire un pezzo di storia.
“Il potere nessuno te lo regala. Bisogna prenderselo”, lo dice Beyoncè.
Credo sia vero. Una parte del potere è nel talento, nell’intelligenza, ma poi bisogna mettere in atto la volontà. Lei ci è riuscita.
In With the Hurt parli del conflitto tra genitori e figli. Lo hai scritto pensando ai tuoi genitori o al giorno i cui i tuoi figli saranno grandi?
A nessuno dei due, veramente. L’ho scritta pensando a questioni più universali. L’incomunicabilità e il non riuscire a essere se stessi. Lo trovo tremendo e così comune. Una delle contraddizioni umane più grandi.
Ribellarsi è un valore?
Sì, senz’altro. C’è una trappola di ruoli che riguarda tutti e su cui dobbiamo essere sempre vigili.
Presto sarai di nuovo tra i direttori artistici di Amici. Lo scorso anno era venuto come ospite uno che non canta e non balla: Roberto Saviano. Tu chi inviteresti quest’anno?
Ezio Bosso, il pianista che ha suonato a Sanremo. Mi è sembrato cazzuto.
Per Django Unchained, il film di Tarantino del 2012, avevi interpretato una ballad western scritta da Ennio Morricone. Gli hai mandato un messaggino di congratulazioni per l’Oscar?
Non ho il suo numero.
Dicono che sia un tipo burbero.
No, è simpatico, corazzato acciaio inox, ma gentile e tenero.
Nel 2017 saranno 20 anni dal tuo primo disco, Pipes & Flowers. Come li festeggerai?
Non so ancora cosa farò, ma spero qualcosa di bello mai fatto prima. Se ci riesco, voglio camminare guardando sempre un po’ più avanti.
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