Riuscire a parlare con Richard Ashcroft non è stato semplice. Lui si è fatto desiderare per svariati giorni (“tu però tieniti libera, eh…”), tanto che, quando finalmente hanno fissato l’intervista, mi è salita un’ansia da primo appuntamento. Cascava pure di sabato sera, a orario da pub, ma mi sono dovuta accontentare di un collegamento telefonico e una Peroni tirata fuori dal frigo. Poco male, visto che Richard considera la realtà una sorta di “matrix”, quindi le esperienze valgono per i parametri che decidi tu di assegnargli. In compenso, una volta che attacca a parlare, non è affatto uno che si risparmia, anzi è quasi impossibile interrompere il suo flusso apocalittico sul mondo, per quanto lui sostenga di non avere «nulla da insegnare, né da predicare». A sei anni di distanza dall’ultimo album da solista United Nation of Sound, e un periodo di discreta latitanza, Ashcroft si è appena riaffacciato al mondo con un nuovo album, These People, e pure un nuovo look: testa rasata e occhialoni un po’ tamarri. La spacconaggine di un tempo c’è ancora tutta, ma quello stile britpop, che dai Verve in poi l’ha reso un’icona per maschi e femmine, sembra aver preso una nuova rotta. Personalmente lo preferivo col taglio lungo e le giacchette di pelle, ma è confortante sapere che a Richard non freghi veramente nulla di quello che preferisce la gente.
Vivi anche tu These People come una sorta di rentrée, o magari è semplicemente sbagliato aspettarsi che un artista sforni un album all’anno?
Non considero la musica su una scala temporale. Sono successe delle cose nella mia vita che hanno reso impossibile fare un album prima, una di queste è che il mio manager è morto. Io stavo cercando di ridefinire me stesso, capire la mia posizione, cosa era vero, cosa no. Come quando vai su Google Earth e cominci a restringere il campo, cercare la tua casa, la tua strada. È un’ansia non solo individuale, ma universale. La paranoia del controllo. Magari negli anni ’60 o ’70 potevi credere a una libertà data dalle droghe, dall’LSD, dallo spiritualismo. Io adesso sono interessato a ciò che è reale, ed è un percorso anche doloroso. A ogni modo, non è molto importante quando esce un album; se dei pezzi come Bitter Sweet Symphony o The Drugs Don’t Work uscissero ora, spaccherebbero lo stesso. E non è che il mondo sia cambiato così tanto nel frattempo. Poi chissenefrega, questo è il tempo che c’è voluto.
Musicalmente hai cominciato a sperimentare in direzioni nuove…
Sì, c’è una chiara influenza elettronica, e un pezzo come This Is How It Feels ha un che di hip hop. Credo che la mia musica lavori su più livelli. Può darsi che un giorno senti un pezzo alla radio e non ti dice niente, poi lo risenti in un mood completamente diverso, e ci rimani sotto o c’è qualcosa nel testo che ti colpisce. In generale, un buon songwriting è così che funziona. La musica pop è meno leggera di quello che ti aspetteresti, e non è detto che ti arrivi tutto nell’immediato. Anche i bravi rapper lavorano su questo tipo di multidimensionalità.
Ma stai parlando anche dei cambi di registro, come in Out of My Body?
Sì, esatto, quando parte il pezzo, con quella intro, potrebbe tranquillamente essere una canzone di Johnny Cash, e poi di botto si apre verso una deriva elettronica cambiando completamente. Mi piace questa libertà. In finale, cerco di rispondere alla domanda che si fanno tutti, e non riguarda solo la musica, cioè: come fare un classico senza che sembri già sentito?
Già, come fare?
Bisogna capire cos’è il “qui e ora”. Può esserci un “qui e ora” del ’66, uno del ’95, io ho cercato di capire quale fosse il mio “qui e ora”.
E pensi di averlo trovato?
Non lo so, la faccenda è complessa. Mi sono chiesto come fare a ritornare nel mainstream. Il pop, nella sua vera essenza, non si limita a fare da specchio alla cultura, ma la distorce. Però non sono molti i musicisti in grado di farlo. Io non sento di avere più nessuna appartenenza: né di destra, né di sinistra, né di genere. Sono solo qui, dove sono. Capito?
In realtà non tantissimo…
Non so come esprimerlo, ma sono qui, ed è dove voglio essere. Davvero, non so niente, non ho niente da insegnare né da predicare. Tutto ciò che so è che l’arte, la creatività, qualsiasi forma di espressione di sé, sono le uniche cose che riescono a darti un po’ di sollievo dal mondo, perché ti portano da un’altra parte, innescano un altro livello. Ci metto anche il calcio dentro, se ti piace giocare.
E a te piace, da quanto ne so.
Sì, e quando ero depresso mi hanno consigliato di provare ad andare in un campetto vuoto a scalciare senza una palla. Penso sia stato uno dei momenti più tristi della mia vita. Per me giocare a calcio o suonare hanno a che fare col livello di cui ti parlavo, ho bisogno di endorfine e ho bisogno di stupore. Per un certo periodo ero in un tale stato di ipersensibilità che non riuscivo ad ascoltare più niente, era troppo. Per dire, avevo paura di sentire Mozart, perché non sapevo dove mi avrebbe portato. Ma è stato proprio rendermi conto di questa cosa, capire l’effetto che poteva avere la musica sulle persone, a farmi lentamente ritornare verso l’ascolto. Insomma, adesso sto bene e sono contento di essere “tornato”.
Ci sono delle nuove band che ti piacciono o che ti hanno influenzato?
Prima di andare a giocare a calcio, mi fomenta mio figlio che mette jungle. La cosa più interessante che c’è adesso a Londra è la scena rap. Che sia di Londra, Parigi, Lione. Poi ogni tanto ti dicono che l’hip hop è morto e questo mi fa pensare che l’hip hop sia veramente come il rock. Ogni tot devono darlo per spacciato, per poi dire: ah no, è vivo, sta in splendida forma. Il punto è quale sarà il ruolo del mainstream. Quest’anno ai Brits non c’era nessuna nomination per artisti grime ed è scoppiata tutta la polemica, e l’anno scorso Kanye West aveva fatto quella performance fantastica alla cerimonia di premiazione salendo sul palco con mezza scena grime, perché lui è uno che sa predire le contraddizioni del sistema e guardare avanti. Anche George Best, il calciatore, era uno in grado di fare proiezioni a distanza. Io sono sicuro che la musica si muoverà in questa direzione, in Inghilterra, in Francia o anche in Italia.
E tu senti di avere questo genere di intuizione?
Per me funziona così, se ti trovi in mezzo al mainstream, ne apprezzi l’assurdità, la sua magnifica assurdità, e a quel punto la puoi distorcere, rivoltarla su stessa, e tornare a guardare quella stessa assurdità cercando una forma di verità e di bellezza. Ed è eccitante, perché anche l’emozione più banale può trasformarsi in qualcosa di incredibile. Io penso che l’industria musicale contro cui abbiamo lottato, tutto ciò che non abbiamo fatto, tutto ciò a cui abbiamo detto no, sia servito per le generazioni venute dopo di noi. Poi vedo i musicisti perdere il loro potere, per diverse ragioni, per non parlare dei talent musicali; ma ogni volta che qualcuno riprende il controllo su di sé, sulla sua musica, sul modo di apparire, di farsi fotografare, di vestirsi, ecco, per me quello rappresenta il futuro. A qualsiasi livello, non ha importanza se hai un fan o milioni di fan, ma davvero è l’unico modo di restare un individuo e non lo schiavo di una corporation. Non so se un giorno le etichette esisteranno ancora, ma anche in quel caso, se firmi un contratto con un’etichetta, che senso ha pensare di essere un creativo e perdere il controllo sulla tua creatività?
Qual è secondo te l’eredità culturale lasciata dalla scena britpop degli anni ’90?
Non lo so, secondo me chiamarla “scena” è solo il modo in cui il mercato si è abituato a parlare delle cose, perché ha bisogno di dare delle definizioni per comunicare. Ma, alla fine, si è trattato solo di un po’ di dischi buoni, e di molti dischi brutti, come quando vai in cerca dell’oro: quello che ti resta tra le mani è quasi niente. E penso sia così per tutti i decenni, magari ci sono decenni più fortunati, ma io non avevo nessuna consapevolezza di essere dentro a una scena. Ero amico degli Oasis, ma avevo pochissimi rapporti con altre band. Però, come ti dicevo, eravamo degli individui che volevano avere il controllo su ciò che stavano facendo, e non so se sia stata una reazione condivisa e cosciente, o si sia trattato piuttosto – non voglio sembrare arrogante – di personalità forti venute fuori nello stesso momento.
Molte date del nuovo tour sono già sold out, sei contento di tornare a suonare live?
Tantissimo. So che ci sono persone che mi aspettano da anni, sono felice di condividere di nuovo qualcosa, ho bisogno di questo legame, perché è sincero e mi fa sentire umano. Per me un live deve avere la capacità di unire la performance a qualcosa di reale: deve essere le due cose insieme, solo così si arriva a una dimensione trascendente. Prendi Edith Piaf, o l’intensità di Dolly Parton che canta per il marito, lì l’aspetto performativo e il senso di reale sono a livelli altissimi e legati l’uno all’altro. Certo non è una cosa che puoi fare per due anni di seguito come un robot. C’è gente che cinque giorni a settimana si sveglia e va a fare un lavoro di merda, e poi si compra il biglietto per un concerto: beh, il minimo che possa desiderare è che quel concerto la porti da un’altra parte, verso una dimensione trascendente. Non sempre è possibile raggiungerla, ma quando suono è lì che voglio arrivare.
Non vedo il futuro, vedo il presente. Perché quello che possiamo fare per il futuro è avere una comprensione più chiara di come potrebbe diventare senza il nostro intervento
Sembra quasi una forma di misticismo.
Senti, è quello che la Chiesa non ha proprio capito. Perché le chiese in Inghilterra sono vuote? Perché non hanno trascendenza da offrire. Non hanno capito come fare a comunicare, come celebrare la vita. Sono posti soffocanti, che ammazzano lo stupore, l’opposto di quello che dovrebbero essere, e allora sì, un concerto davvero potente è quello che si avvicina di più a un’esperienza del trascendente.
Parliamo del titolo del tuo album: “These People”, chi sono per te queste persone?
Ah, questa è una buona domanda perché il titolo era nell’aria da molto prima dell’album. Mi sono fissato con questa espressione “these people”, che è quella che usano i media quando non è chiaro a chi si stiano riferendo. Davvero, se ti capita di vedere un programma di news americano, sentirai dire “these people” almeno una ventina di volta, senza che venga mai specificato chi siano queste persone, che ruolo abbiano, che potere, se sono i cattivi. Può sembrare divertente, ma è anche inquietante. Poi magari dopo un’ora di news catastrofiche, passi di filato a una serie tv. Ecco, non è che ti faccia particolarmente bene al cervello questa cosa, per quanto pensi di esserci abituato. E il nostro cervello è sempre lo stesso, non è cambiato da quando non avevamo idea che potesse succedere a chilometri di distanza da noi. Nei miei pezzi parlo di questa forma di ansia e mi piacerebbe avere una macchina del tempo per tornare indietro e spiegare meglio cosa volevo dire. O andare nel futuro e rendermi conto che le droghe continuano a non funzionare.
A proposito di futuro, come lo vedi?
Non sono molto ottimista, ma non vedo il futuro, vedo il presente, perché tutto quello che possiamo fare per il futuro è avere una comprensione più chiara di come potrebbe diventare senza il nostro intervento, qualsiasi tipo di intervento. Il resto è il solito gioco, è una pantomima. E ci siamo passati tutti. Ci abbiamo creduto, eravamo parte attiva nella pantomima. Barack Obama o Tony Blair sono ottimi esempi. L’ho seguita al tempo la campagna di Obama, riusciva a parlarmi, capivo cosa volesse dire, perché avevo la mia formazione personale su quei temi, ero sensibile alla causa, pure con un certo stoicismo: la black culture, la discriminazione, i pregiudizi. Ma era una pantomima. E Blair… hai presente la sua foto con la chitarra? Beh, tutto sommato, era meglio se fosse diventato una rockstar da quattro soldi.
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