Ogni anno il Sónar lancia dei messaggi sulla musica elettronica, vista come chiave di lettura del presente. Non è più solo una questione di fare festa, il punto è scoprire e lasciarsi sorprendere dalle infinite possibilità di interazione tra creatività e tecnologia. Il Sónar è un non-luogo aperto giorno e notte (la prossima edizione sarà a Barcellona dal 15 al 17 giugno 2017) che funziona come un laboratorio culturale sparando a tempo di beat sintetici sequenze di riflessioni sul contemporaneo a un pubblico eterogeneo e internazionale. L’edizione numero ventitré si è chiusa con un’affluenza totale di 115.000 persone provenienti da 101 paesi diversi (con una percentuale del 53% di stranieri e 47% di spagnoli), i 584 workshop del Sónar +D che hanno fatto incontrare esperti, creativi e investitori e hanno lanciato 46 progetti nel settore della musica attraverso la piattaforma Start-Up Garden e 130 performance esibizioni che hanno attraversato tutte le derivazioni possibili del suono urbano, della dance e dell’elettronica sperimentale. Per la stampa spagnola, il Sónar è “la gran cita”, il grande appuntamento con l’innovazione, qualcosa che va al di là della musica e viene accolto come un vero generatore di cultura. Perché, va ricordato, da queste parti hanno capito che la musica è cultura e che vale decisamente la pena concedere spazio e risorse a chi ha voglia di mettere in piedi un laboratorio di avanguardia in cui, perché no, ci si diverte di brutto per tre giorni durante il quale, perché no, si esporta il marchio Barcellona e fa entrare un indotto considerevole in città. Il messaggio è: proviamo a mettere arte e scienza insieme, qualcosa di buono succederà. Grande lezione per tutti ogni anno dal Sonar. E grande capacità da parte del visionario Sergi Caballero e del suo team di costruire una scaletta che insegue questa visione avanzata ed imprevedibile. Ogni tentativo di interpretazione del contemporaneo deve avere un percorso diversificato e deve presentare progetti ancora non identificati, mettendo insieme fianco a fianco suggestioni e certezze. E allora, cosa ci ha fatto vedere quest’anno il Sónar?
L’attivista queer The Black Madonna e la sua techno di protesta a favore del movimento Lgbt, la “bass music” di Kode9, il grime di Skepta che porta in giro l’album Konnichiwa, uno dei migliori del genere, il suo erede Stormzy, l’australiano Flume e l’”elettronica organica” (l’ha definita lui stesso così) del suo secondo album Skin, nato scappando da tutto in una casa sperduta in Tasmania lo spettacolo pop dissacrante di Santigold tra finti spot e cartelli sul palco con scritto “We Buy Gold”. Ci ha fatto vedere anche i giganti house Jackmaster, Kerry Chandler e Kenny Dope Gonzalez, l’evoluzione moderna del cantautore impersonata da James Blake, John Grant e la sua derivazione fluida, ovvero Anohni che ha fatto qui la prima tappa europea del tour di Hopelessness che arriverà il 12 luglio a Torino. Ci ha fatto vedere i pionieri New Order che tornano con l’album Music Complete e Jean Michel-Jarre che ha presentato il dittico Electronica suonando i laser con le mani in uno spettacolo di luci al tempo stesso futurista e splendidamente fuori tempo e Fatboy Slim che ha fatto divertire tutti sparando big beat e loop di immagini da un laptop rovente, su cui oltre alla telecamera che riprende sempre il suo faccione c’è piazzato in bella mostra un adesivo con scritto: Stop Me If I Rave Again. Abbiamo avuto anche la conferma del fatto che l’avanguardia vista come fusione riuscita tra passato e futuro è sempre nelle mani afferrate al microfono degli artisti black: un grandioso Roots Manuva, la splendida Kelela (nuova diva nu-soul che si muove alla grande tra Neneh Cherry ed Erykah Badu) e Lady Leshurr, sangue caraibico e freestyle dalla periferia di Birmingham.
Quello che ci è piaciuto di più è aver fatto sentire ancora una volta l’anima dentro la musica elettronica. Al Sónar c’è una specie di rivendicazione silenziosa che va cercata girando da un palco all’altro. È il potere trascendente della musica, la possibilità di creare beat sintetici che abbiano dentro la scintilla del soul, non importa a quale frequenza di Bpm vengano sparati fuori dalle casse. Quest’anno è successo nello spazio SónarCar che ha trasformato in un club da tremila posti uno degli immensi capannoni della Fiera in cui si svolge Sónar de Noche.
Il club nella storia della musica dance è stato il luogo in cui le differenze sociali, di genere e di stile si annullavano e si poteva essere liberi e unici, vivendo ogni notte come se fosse l’ultima. È il simbolo del cuore pulsante di un movimento che dalle quattro pareti del club è esploso invadendo con il suo spirito ogni spazio, dai festival all’aperto agli stadi, dalle spiagge ai capannoni industriali. Il Sónar, da un certo punto di vista, è un punto di arrivo di questa evoluzione: un mega-raduno di creatività multimediale, una celebrazione dell’elettronica con le dimensioni di un evento globale. Per questo nel 2016 il Sónar ha scelto di tornare indietro al club: un cerchio di tende rosse, una mirrorball e un impianto sublime esattamente al centro della distesa di dancefloor, come fosse il suo cuore pulsante, e Four Tet e Laurent Garnier a farlo battere per sette ore filate per due notti di seguito. Four Tet è stato morbido e vario e ha cercato la poesia, Laurent invece ha acceso la macchina ed è andato dritto senza mai scendere sotto i 160 Bpm, ma riempiendone ognuno di intensità, sorprese e un’idea profonda della musica, quasi spirituale anche se inquietante. Tutto perfetto, musica per chi sa ascoltare.
Ma a mettere le cose in chiaro ci avevano già pensato gli Underground Resistance che hanno eseguito dal vivo il progetto Timeline. Nel backstage del Sónar Dome i membri del leggendario collettivo di Detroit che ci ha dato “Mad” Mike Banks, Jeff Mills e Robert Hood (portando avanti la scena techno di Juan Atkins, Derrick May, Carl Craig e Kevin Saunderson) rilanciano il loro messaggio: «Timeline vuol dire tornare indietro lungo la sequenza temporale e ricordare le origini. Vogliamo riportare i musicisti dentro la musica». Il live di Underground Resistance è sassofono e tastiera, strumenti dal vivo e pura improvvisazione su base techno: «Parliamo di arte, cultura, persone. Parliamo della musica di Detroit, di gospel, funk e soul e del jazz che in origine era una musica da ballo. Parliamo dello spirito della nostra città in cui preferiamo essere rispettati per qualcosa che non funziona piuttosto che finire incasellati in qualche etichetta commerciale». Musica militante, indipendente e senza compromessi: «L’industria segue sempre la cultura» dicono gli Underground Resistance, «L’unica forma di successo è essere importanti per chi ti ascolta».
Se il Sónar nel 2016 è riuscito a farci vedere l’anima nella musica elettronica, è anche grazie al radicalismo instancabile di Underground Resistance: «La torcia del movimento è passata a noi. Siamo qui per portare un messaggio: ci vogliono grandi qualità musicali per fare grande musica».