Confesso che mi piace molto origliare le conversazioni della gente, e da quando il mio quartiere si sta riempendo di carrozzine, uno degli argomenti che va per la maggiore è il regime alimentare della propria prole. Non cose del tipo: “A mio figlio piace la pizza con i wurstel” o “Jacopo va matto per la cioccolata”, ma disamine pseudo-scientifiche sulle proprietà dei cibi, fobie da grassi saturi, parole del nutrizionista salmodiate con reverenza. Nemmeno lo sapevo che esistesse un nutrizionista per l’infanzia; però ora lo so, perché nel bar a più alto tasso di carrozzine del quartiere ci sono cataste di volantini che sponsorizzano una prima visita gratuita. In Orfanzia, l’originale romanzo di esordio di Athos Zontini, ci troviamo alle prese con un bambino che ha deliberatamente scelto di non mangiare, convinto che tutti gli infanti siano messi all’ingrasso dai loro genitori, per poi essere divorati non appena saranno abbastanza in carne da risultare appetitosi. Nel saggio Il nuovo conformismo di Frank Furedi si parla dell’ansia contemporanea di monitorare il disagio infantile, psichiatri che spingono per un “intervento precoce” appena si palesino impercettibili sintomi di disagio, bambini stessi che cominciano a usare il linguaggio della psicologia per parlare di se stessi, finendo per diventare adulti in miniatura, molto più impauriti da una creatura multiforme e ambigua chiamata “Stress” che dal modesto spauracchio dell’Uomo nero.
Il protagonista di Orfanzia rifiuta il cibo insieme a tutto ciò che il cibo si porta dietro, ovvero la crescita, il diventare adulti, il prendere parte a quel gran banchetto della consapevolezza, dove la fragilità personale è rivendicata e poi gestita solo sotto forma di patologia. Per Zontini il disagio è la condizione che precede il formalismo della maturità, i tic della convivenza civile e la rabbia compressa della convivenza forzata, il gioco di ruolo della genitorialità che può rivelarsi più estenuante di una partita a Risiko.
Insomma, è il disagio che precede la capacità di imparare a dissimularlo, in quell’epoca in cui non ci avevano ancora assegnato il kit basic di sopravvivenza: l’espressione giusta da usare al momento giusto, lo sguardo di assenso, quello di rimprovero, l’intesa silenziosa, tutto il repertorio che utilizziamo per stabilire con gli altri una complicità il più possibile codificata e pacifica. “I padri si guardano”, scrive Zontini, “guardano le mogli e danno il permesso di uscire sul balcone. Chissà come fanno gli adulti a parlare senza aprire bocca, a dirsi tutto con gli occhi e non sbagliare”. Scritto come una favola nera, i luoghi di Orfanzia non sono molto diversi dai boschi, i castelli, o le casette di marzapane, e non perché siano fatati, ma perché non sono altro che se stessi, riducono a zero l’apparato intellettuale che – crescendo – edifichiamo sopra i luoghi reali. E allora la città è la città, l’isola è l’isola, alla Primavera segue l’Estate, e all’Autunno l’Inverno (i nome delle sezioni del romanzo), e nessuno sta lì a rimpiangere le perdute mezze-stagioni. Gli oggetti e le presenze umane prendono forma solo quando il protagonista ne ha bisogno, perché da bambini l’avidità è un mezzo diretto di rapporto col reale, un antagonismo eroico contro gli ostacoli, e la smania di possesso non riguarda una questione di status ma obbedisce alla semplicità del desiderio e della scoperta. Questa stilizzazione geografica e sociale diventa molto più potente di qualsiasi spaccato poetico, pittoresco o realistico, a maggior ragione considerando che Zontini è di Napoli, e che oggi sembra quasi una prerogativa contrattuale per gli scrittori partenopei ricamare allo sfinimento sul loro immaginario local, con l’ambizione pedante di renderlo al tempo stesso incredibilmente unico e metafora di ogni cosa.
Per fortuna tutto ciò ci viene risparmiato e, in questo senso, Orfanzia è l’esatto opposto di un romanzo ruffiano, fa pensare semmai a un libro come La trilogia della città di K, anche nella lingua asciuttissima e icastica, in grado di dosare l’ironia a una profondità intuitiva, schietta quanto il pensiero di un ragazzino, a partire dal bellissimo incipit: “Niente mi ha fatto male più dell’amore. Appena nato stavo per morire di ernia strozzata. I miei mi vedevano piangere e non capivano, si ostinavano a tenermi in braccio come se fosse una questione di affetto – una nostalgia da placenta che andava colmata”.
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