“Non sapevo che i Radiohead avessero fatto un featuring coi Death Grips” scherza qualcuno nei commenti sotto il video di Brainwasher su YouTube. Ripensandoci meglio, è la definizione più spiccia e geniale che si possa dare ai Suuns.
Sempre più minacciosi ogni album che passa, i rocker non-rocker di Montréal sono riusciti nell’impresa non proprio facile di rendere dissonanti i Radiohead, addolcire i Death Grips e farli incontrare in una stanza buia e affollata, dove a farla da padrona è una lenta, sensuale EBM suonata però da veri strumenti. Per cui, ecco, i Suuns sono uno di quei gruppi da vivere prima di tutto davanti al naso, dal vivo, anche senza aver ascoltato un solo brano dell’ultimo Hold/Still. Non occorre nemmeno sapere a memoria i testi sussurrati da Ben (il cantante con cui abbiamo parlato più sotto), l’importante è fidarsi di noi quando vi diciamo di andare ad almeno una delle due date italiane, il primo novembre al Locomotiv di Bologna o il 2 al Biko di Milano. Provare per credere.
Sta filando tutto liscio in tour?
Alla perfezione. Abbiamo appena lasciato il Regno Unito, dove siamo stati due giorni, due show incredibili. Probabilmente è l’ultimo tour di quest’anno quindi stiamo dando il meglio. Ce la stiamo spassando.
Non fai nemmeno in tempo a farti venire la nostalgia della vita in tour.
Proprio no, visto che siamo sempre in giro.
Suppongo che la maggior parte dei pezzi in scaletta provenga dall’ultimo Hold/Still.
In realtà il nuovo album occupa solo metà del concerto. L’unica regola fissa è che non ci sono regole: ogni sera cambiamo la scaletta a seconda di come ci gira. Non suoniamo mai gli stessi pezzi tutte le sere. Chiaramente i nuovi hanno la priorità, non tanto per ragioni promozionali, più che altro perché ci piace suonare roba nuova. Rende tutto meno ripetitivo. Ogni tanto ci scappa pure qualche cover, dipende dal mood.
Fico! Però questo comporta sessioni immense di prove prima del tour, no?
La cosa non ci pesa più di tanto. È un vantaggio decidere tutto due minuti prima del live: è divertente e lascia spazio agli imprevisti.
Vi piace rischiare, così come lo avete fatto con il nuovo album. Ho letto da qualche parte che lo avete descritto come quello che “mette più alla prova di tutti”.
Mette alla prova soprattutto chi ascolta, quello sì. Per noi è stato diverso. Al momento di registrarlo, abbiamo semplicemente tirato fuori quello che più ci rappresentava in quel preciso istante. Non ti nascondo che sentivamo una specie di pressione. Come se dovessimo produrre un album più accessibile e che potesse raggiungere il maggior numero di persone, spinto lontano anche dalla nostra label. Poi però ci siamo ritrovati in studio con, fra le mani, canzoni interessanti ma per nulla scese a compromessi con la pressione iniziale. Non abbiamo limato nessuno spigolo, il risultato è stato una chiara rappresentazione della band. Ci siamo sentiti di fare così e ne siamo fieri, ma capisco perfettamente che per molti è il nostro disco più impegnativo all’ascolto. È minimale e le idee al suo interno non sono proprio quelle di una pop song.
C’è una specie di gioco di opposti nel disco, una doppia natura, non trovi? Credo che Brainwash sia l’esempio perfetto: chitarre rilassate di fianco a violentissimi breakdown noise.
In molta della nostra musica questi due mondi collidono. Credo anche io che Brainwash sia l’esempio più evidente di questo contrasto. È una buona traccia per spiegare a qualcuno ciò che siamo, ci rappresenta molto.
Magari ha segnato una transizione e il prossimo album sarà solo droni minacciosi e noise.
Chi lo sa! No, non abbiamo ancora pensato a nulla del prossimo disco, nessuna direzione è stata presa. Magari invece sarà soft rock, pieno di ballad sentimentali [ride].
In entrambi i casi sarei felice. Tornando a noi, di Brainwasher mi ha colpito molto anche il video. Come mai così allucinato?
Quando è iniziato il lavoro sui video, ne avevamo tre in mente. In modo tale che ognuno fosse la continuazione del precedente. Il primo è qualcosa di ultravioletto, il secondo è come un videogioco ma con persone vere, mentre il terzo è un vero e proprio videogioco a cui puoi giocare se scarichi l’app. In parte tutto ciò lo si deve a una videogame culture profondamente radicata a Montréal e al fatto che abbiamo accesso a persone che fanno cose molto interessanti. È stato un ragazzo australiano a realizzare il video di Brainwasher, dandogli un’estetica particolare. Un po’ old school ma anche strambo e senza una direzione precisa o anche solo un inizio e una fine. Sei semplicemente immerso in un mondo paradossale.
Ed è pure gratis l’app, mi pare.
Sì, totalmente gratuita.
Sempre più spesso i musicisti si ritrovano a collaborare coi programmatori di videogiochi. Questa cosa mi rende euforico ma non ho ancora capito perché. Forse sono solo un nerd.
Più i media si evolvono e più sono richiesti nuovi modi di fruire dei contenuti. Non oso immaginare come sarà fra dieci anni. Però, sì, che tu sia fan o meno del virtuale e dell’interattivo è indubbiamente qualcosa di elettrizzante al pensiero. Anche per noi è una figata.
Siete dei videogamer?
Non propriamente. Voglio dire, OK, siamo cresciuti giocando al Nintendo come te e chiunque, e abbiamo anche noi il telefono pieno di giochini inutili, ma non ci definirei videogamer. Anche perché offenderei i veri gamer se mi definissi tale. Diciamo che se c’è da passare qualche oretta davanti all’ultimo videogioco in voga non mi tiro indietro.
Ho notato una cosa: nei vostri tre album c’è sempre una ragazza in copertina, come mai?
Prima di tutto, sono tutte nostre amiche, mai modelle professioniste. Sono ragazze che conosciamo e che secondo noi hanno un look interessante. Abbiamo fatto così per il primo album, per il secondo e quindi anche per il terzo ci siamo detti: “Beh, ormai è una serie. Continuiamola.” Oltretutto è stata una nostra fan a scattarle, quindi più che un messaggio abbiamo voluto comunicare un metodo: roba fatta in casa. Ogni foto trasmette il mood del disco e del nostro background. E apensarci bene, sono tutte foto oscure [ride].
Nella seconda copertina comunque c’era più ottimismo del solito, e credo anche nel disco.
Quella è stata la nostra prima copertina apribile, quindi c’è stata molta più libertà nell’artwork. Il titolo dell’album invece, Images Du Futur, prende il nome da una mostra che c’è stata a Montréal negli anni Ottanta. Per la copertina interna dell’LP ho fatto alcune ricerche in un archivio qui a Montréal. Ho trovato una vera immagine della mostra, di cui mi ricordo ancora perché ero bambino all’epoca. È stato un altro modo per citare la nostra città, oltre che per dare all’intero disco un’idea retro-futuristica.
Ne farete mai un altro con Jerusalem In My Heart?
Lui è uno dei nostri migliori amici, con cui abbiamo condiviso moltissimo tempo qui a Montréal. Sia noi che lui ci sentiamo molto parte della comunità. In effetti si è già parlato di rifare un disco insieme—e infatti credo che succederà. Il problema è che l’ultima volta ci abbiamo messo tre anni perché siamo tutti impegnatissimi. È un peccato, perché credo che artisticamente sia il disco più di successo che abbiamo mai prodotto. Il motivo principale è che non c’erano pretese, volevamo semplicemente goderci del tempo insieme appena possibile. Il risultato è un disco forte, con una grande personalità, che restituisce un’immagine fedele di chi siamo e cosa facciamo. Non so, magari avremmo solo bisogno di un nuovo stimolo per rimetterci insieme al lavoro.