Il terzo album di Solange Knowles, A Seat at the Table, è un disco sulla sopravvivenza black nel 2016; una combinazione di discorsi che vanno dritti al punto e R&B di riflesso, per creare quello che lei chiama un “progetto sull’identità, sul potere, sull’indipendenza, sul lutto e sulla rinascita”. Al di là dei titoli più legati alla potente ossatura politica dell’album – F.U.B.U., Mad, Don’t Touch My Hair –, questo è un LP di suoni fantastici che prendono ispirazione dal lato più polveroso del soul pur risultando tempestivo come un tweet appena pubblicato.
Coprodotto da Solange e dal santone del neo-soul Rapahel Saadiq, A Seat at the Table trae la sua potenza sonora dalla leggerezza: Solange riesce a esprimere in maniera semplice le sue opinioni, che cadono però pesanti come macigni.
Solange cerca di tirare fuori il lato più onesto dei feature del suo disco, che siano invitati a cantare o semplicemente a chiacchierare con lei. Suo padre Mathew ricorda la sua adolescenza, quando doveva subire gli sputi a scuola, essendo uno dei primi studenti di colore delle scuole del Sud; nell’interludio Tina Taught Me, sua madre Tina demolisce efficacemente la retorica del “white lives matter”. E il verso di Lil Wayne sulla spettrale Mad offre un quadro preciso sui motivi per cui deve “pop a Xan about”, tra cui l’alienazione e la solitudine.
A Seat at the Table è un album dal suono gentile, ma non è per niente debole. Solange ne parla come di un album punk. La sua versione distillata e minimale dell’R&B, che considera non solo la ricca storia musicale del genere ma anche la sua naturale propensione a essere argomento di discussione sociale, ha avuto come risultato una dichiarazione sorprendente che ridefinisce la vecchia vicenda del trasformare il personale in politico. In un mondo volatile, sempre più definito dalle volgarità, la tenera confezione che Solange ha creato per esprimere la sua brutalità è bellissima e decisamente radicale.
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