Con la serata di ieri, Club To Club è entrato nel vivo dei giochi. Nel suo secondo giorno il festival torinese ha potuto aprire finalmente le porte del Lingotto, ex stabilimento FIAT dove ogni anno si consuma uno degli eventi più attesi se parliamo di elettronica.
Ma l’immenso scheletro dove gli Agnelli hanno fatto costruire milioni di utilitarie in un passato nemmeno poi tanto lontano non è stato l’unico fulcro. La soirée infatti, dopo un paio di cocktail all’Absolut Symposium, si è aperta al Conservatorio Giuseppe Verdi di Piazza Bodoni con il live di Arto Lindsay e Paal Niilsen-Love. «A me sembra una gigantesca supercazzola» mi confida nell’orecchio un amico dopo a quarto d’ora dall’inizio della performance. In effetti, se non si è tanto abituati ai concetti di No Wave e più in generale di musica etichettata come sperimentale, è facile pensare che l’uomo sul palco davanti a te ti stia prendendo in giro.
Rughe e stempiatura a parte, pare che non sia passato un solo giorno dai tempi dei DNA e della scena No Wave newyorchese. Il suono prevale sulla struttura e spesso Lindsay, accompagnato soltanto dalla batteria di Niilsen-Love, si ritrova a usare la sua dodici corde come una drum machine, come mi ha confidato a colazione stamattina (l’intervista andrà online più tardi in giornata). Distorsioni, dissonanze, urli nervosi ma anche una voce come sempre morbida, sinuosa, magnetica. E forse è proprio questo contrasto titanico fra una musica frammentata, in preda ad apparenti convulsioni e un cantato invece fluido e sensuale a tenere altissima l’attenzione per tutta l’oretta abbondante di live. Si rimane semplicemente increduli e la cosa vale sia per chi già conosce il compositore americano ma soprattutto per chi no, come il mio amico seduto di fianco a me.
Gli anni passati in Brasile da giovane poi fanno sì che, per ogni brano cantato in inglese, Lindsay ne faccia un altro in portoghese, con uno stile bossa nova sussurrato capace di trasformare in morbido cotone anche il calcestruzzo. Incredibili anche le invenzioni sonore del batterista, mostro di tecnica e di potenza nell’esecuzione. Usa ogni oggetto gli capiti a tiro per produrre i rumori più disparati, compresa la bottiglietta d’acqua appena finita, che strizza e comprime con due mani che potrebbero strozzare un grande mammifero marino. Una ricerca del suono inusuale che mi ha ricordato i live dei Boredoms. Non ci sarà stata la ressa della stessa serata l’anno scorso, quella con Apparat, ma il Conservatorio si è comunque riempito di gente che al termine del concerto si è ritrovata davanti all’uscita a discutere del live appena finito con molto più trasporto rispetto al più blasonato Apparat.
Essendo rimasto per il bis, sono inevitabilmente arrivato agli sgoccioli del live di Forest Swords, primo act nel programma di ieri sera al Lingotto. Cerco di intercettare da colleghi fidati le impressioni sull’esibizione del producer inglese appena conclusa. Come sospettavo, sono tutti abbondantemente soddisfatti dal suo trip hop post-Internet di derivazione Massive Attack. Meno incisiva è stata la performance successiva di Tim Hecker. Non che la sua drone music sporcata di pad, glitch, errori e qualche arpeggio valga meno, ma forse per via di una banalissima questione di contesti. Se si sta con le cuffiette sul treno, ben venga Tim Hecker (e anzi, è la colonna sonora perfetta per perdersi in ragionamenti senza capo né coda), ma è sempre difficile apprezzare a fondo un live di soli, densissimi droni senza un minimo di variazione, in piedi davanti a un palco inondato di fumo senza neanche poter vedere l’artista. Ma sono gusti.
Infine, lo stupore. Almeno otto persone su dieci, è chiaro, sono lì per vedere Arca, giovane produttore venezuelano che ha già firmato pezzi per Björk e Kanye West. Icona queer, Arca si distingue dalla massa per la sua estetica cruda, esplicita e violenta. Sia musicalmente che visivamente parlando—ieri come spesso succede ha affidato la proiezione delle immagini alle sue spalle a Jesse Kanda, visual artist inglesee fidata spalla. Dicevamo, stupore, perché dopo un breve intro dietro alla consolle, Arca fa il giro e a sorpresa si mette al microfono davanti al banco dove sono sistemati mixer e lettori. Dalla vita in su, indossa giacca e camicia aperta sul petto; dai fianchi in giù, solo degli autoreggenti e tacchi a spillo.
Ieri sera, pare, Arca abbia cantato dal vivo per la prima volta. Si è percepito infatti un po’ di nervosismo, ma fin dal primo pezzo (che nel live alternava a un dj set techno e dub oscuro, violentissimo) si è capito che la transizione da produttore a performer è compiuta. Direi che Club To Club è cominciato nel migliore dei modi.