A un certo punto, guardando giocare l’Italia del rugby, ho cominciato a pensare a chi fosse il giocatore più invocato e maledetto, sulle cui spalle – certamente possenti – poggia effettivamente il destino della partita, fosse anche per pochi minuti. In tutti gli sport di squadra, e qualcuno sostiene che il rugby sia lo sport più di squadra che esista, c’è un momento in cui la pressione pende tutta da un lato, si incanala e finisce per schiantarsi sul petto di un uomo solo, stupito e confuso. Generalmente l’ultimo rimasto in difesa. È il portiere che si trova a gestire un contropiede lampo, l’esterno che insegue una spiovente lunga fin sul muro che delimita il fuoricampo, il primo difensore a rientrare nella propria metà dopo un rimbalzo rubato. In quei momenti la squadra svanisce, gli schemi si infrangono, le regole del gioco si polverizzano e restano solamente le leggi della fortuna e dell’abilità innata. I tifosi si galvanizzano e tutto quello che sanno ripetere ossessivamente è il nome di quel povero cristo rimasto a fare le veci di altri quattro-otto-dieci-quattordici, dalla cui prestazione dipende, improvvisamente e senza che nessuno lo abbia deciso, tutto.
L’ESTREMO, LO DICE IL NOME, è un ruolo ingrato. Se ne sta da solo in fondo al campo, è l’ultimo a dover placcare gli attaccanti avversari in fuga verso una meta quasi sicura e il primo a portare il pallone contro un muro di carne in avanzamento minaccioso. È quello che calcia per fare strada, che deve prendere le decisioni nel tempo della risalita della difesa avversaria, prima di venire letteralmente schiacciato da un paio di energumeni ai quali della sua solitudine non importa granché. «Se lo chiedi a un pilone (uno di quei giocatori grandi e grossi che nel rugby occupano la prima linea, ndr) sembra che io non faccia niente», ridacchia Luke McLean, estremo della Nazionale italiana, che di momenti da solo in fondo al campo ne ha già passati un bel po’. «Certe volte un paio di attaccanti riescono a superare la linea di difesa e ti vengono addosso in due. Tu devi decidere su quale andare per cercare di fregare l’altro, di rubargli il tempo ed evitare il passaggio. Ecco, in quei momenti vorresti non essere lì».
Luke (all’anagrafe Luke Joseph McLean) è nato a Townsville, nel Queensland, Australia, più o meno 29 anni fa e da una decina il suo nome salta fuori, corredato da una serie di invocazioni pittoresche e di buon auspicio, ogni volta che la nostra Nazionale si trova in un momento di difficoltà durante una partita del Sei Nazioni, dei mondiali o di test. È alto, moro e quasi sempre sorridente, come ci si aspetterebbe da un rugbista dell’emisfero Sud abituato a correre dietro al pallone e ai compagni sotto il sole a picco dell’entroterra australiano. Potrebbe essere un surfista, uno di quei ragazzoni che guidano van scalcinati con le tavole sul tettuccio fino al limite delle scogliere, per poi scendere giù di corsa e senza fermarsi scivolare di pancia nell’Oceano. A voler essere precisi, nel rugby il suo ruolo è quello che in gergo si definisce utility back. E cioè uno che può coprire più o meno tutte le posizioni di gioco veloce, dall’ala all’estremo, qualche volta mediano d’apertura: portare palla in attacco, garantire una buona difesa e soprattutto saper decidere velocemente se e come calciare quando ce n’è bisogno. Ma nessuno degli affezionati tifosi italiani si ricorda di lui come ala. Molto meglio pensarlo concentrato alla ricerca dei pali da un calcio piazzato, oppure lievemente preoccupato mentre recupera un pallone rimbalzante in area di meta e lo riporta in una posizione sicura, facendosi largo a spallate, prima di sbarazzarsene per qualche altro minuto con una pedata.
«DA PICCOLO NON VOLEVO GIOCARE A RUGBY», racconta ripensando ai primi anni di scuola, laggiù nel Sud del mondo. «A dire la verità non mi piaceva per niente. Giocavo a calcio e pensavo che lo avrei fatto per il resto della mia vita». Ma, come la maggior parte degli australiani, aveva un padre appassionato, un fratello giocatore e prima o poi si è trovato a non avere più scelta. «Ci siamo trasferiti e nella nuova scuola non c’erano squadre di calcio. Non c’era la possibilità di fare nessun altro sport a parte il rugby, in realtà. Così, non senza inghiottire un boccone amaro, mi ci sono buttato». L’abitudine ha lasciato spazio alla passione e presto, attraverso le scuole superiori e il college a Brisbane, l’istinto si è fatto sentire trasformandolo da giocatore riluttante a buon giocatore. Fino a farlo diventare un giocatore degno di un club del massimo circuito nazionale, il Perth Spirit.
ALLE SOGLIE DEL PROFESSIONISMO, Luke si è trovato di fronte alla decisione che avrebbe determinato il futuro della sua carriera. Essendo nipote di immigrati italiani, poteva scegliere di richiedere un secondo passaporto, lasciare l’Australia e tentare la fortuna rugbistica in un Paese diverso da quello in cui era nato. E così, come per decidere se correre a destra o a sinistra per scansare il placcatore che lo bracca quando di campo alle spalle non ne ha più, la sua è stata una scelta di impulso: «Un procuratore mi ha detto, “C’è la possibilità di andare a giocare in Italia”. Io gli faccio, “Quanto tempo ho?”. “Quattro giorni”». Quattro giorni dopo era a Calvisano, in provincia di Brescia, pronto a debuttare nel girone di Eccellenza del campionato italiano.
ERA IL 2007 E IN QUEGLI ANNI COMINCIAVANO a delinearsi i contorni di quello che la stampa avrebbe poi battezzato “movimento”. I club di provincia facevano la parte dell’alternativa al calcio per i bambini e il rugby insegnava il gioco corretto, il corretto modo di tifare e una nuova, più sana maniera di intendere lo sport agonistico. Non era passato molto dal primo Sei Nazioni disputato dalla nostra Nazionale, e per tanti era venuto ormai il tempo di fare un passo avanti e cominciare a macinare soddisfazioni. McLean ha giocato in azzurro per la prima volta nel 2008, allenato dal neozelandese Nick Mallett, in un test-match di primavera a Città del Capo, contro i feroci sudafricani, e lo stesso anno ha partecipato a una storica vittoria contro l’Argentina – gli Italiani d’America – a Cordoba. «Mi ricordo che quando giocavamo a Roma, allora ancora sul campo del Flaminio, lo stadio era sempre pieno. Si respirava un’atmosfera di festa, si capiva che i tifosi italiani ci volevano davvero bene e avevano bisogno di noi come di una cosa nuova».
IL PASSAGGIO DA BRISBANE ALLA NEBBIA e all’umidità della bassa bresciana non deve essere stato semplice. «Non sapevo la lingua, non conoscevo nessuno, pioveva sempre e non ero abituato», dice adesso Luke con quel misto di incertezza e malinconia di chi ha trovato una casa molto lontano da casa e non riesce a credere di essere mai stato da nessun’altra parte. «Gli amici in Australia pensavano che sarei tornato indietro subito: ero un noto “mammone”. Dopo un po’, però, mi ha raggiunto la mia ragazza, che adesso è mia moglie e con la quale ho un figlio, ci siamo trasferiti a Treviso, abbiamo costruito una famiglia, sono passati quasi dieci anni e non riesco a immaginare un’altra vita». Parla un italiano pulito con un leggero accento del Nordest misto a una cadenza inglese piacevole e morbida. È sereno, sa di trovarsi nel posto giusto e di fare quello che è sempre stato destinato a fare. Anche quando gli chiedo dei prossimi test-match di autunno, che sono letteralmente dietro l’angolo (il 12 novembre a Roma contro gli All Blacks, contro il Sudafrica il 19 a Firenze e a Padova il 26 contro la Nazionale tongana) non perde il sorriso: «Iniziare coi neozelandesi è senz’altro spaventoso, ma anche molto eccitante. Ormai giocano uno sport tutto loro, in campo dettano legge. Però ogni volta c’è qualcosa da imparare, non si tratta di andare all’inseguimento, ma di cercare continuamente di migliorarsi per aspirare al loro gioco. È grazie a loro se il rugby sta cambiando così tanto».
CON 81 PRESENZE IN NAZIONALE, Luke fa la parte del veterano in una squadra che negli ultimi anni si è rivoluzionata, di pari passo con la percezione dello sport in un Paese abituato ad avere una sola alternativa. In Italia ha visto gli stadi riempirsi e svuotarsi, gli 80mila di San Siro nel 2009 e le delusioni degli ultimi Sei Nazioni. Ha assistito alla moltiplicazione e alla crescita dei club di provincia, ha debuttato con la Benetton Treviso nei tornei europei, ha conosciuto le rivalità storiche e ne ha viste di nuove nascere e affermarsi. Ha sperato, assieme a centinaia di migliaia di altri, che il rugby fosse qui per restare e, come centinaia di migliaia di altri, ha avuto i suoi dubbi, qualche volta. «Per una stagione ho giocato in Inghilterra, nei Sale Sharks a Manchester, e lì è proprio tutta un’altra cosa. Sono abituati al rugby fin da piccoli, la tradizione è lunghissima e storica, lo sport si respira ovunque. Chissà se anche noi arriveremo mai a una passione del genere». Però non perde la fiducia: «Se devo insegnare qualcosa a mio figlio, gli voglio insegnare il rugby. Certo, se vorrà lo porterò a vedere delle partite di calcio o di qualsiasi altro sport, ma non potrà fare a meno degli stessi valori che ho io, per crescere», dice con la serietà di chi la determinazione l’ha imparata giocando.
INTANTO, I FEDELISSIMI SI PREPARANO a una nuova stagione di impegni internazionali, a conoscere un nuovo allenatore, l’irlandese Conor O’Shea che sostituisce il francese Jacques Brunel e ad avere fiducia in Luke in fondo al campo, pronto a scontrarsi col proprio destino e a prendersi le responsabilità che altri dagli spalti gli scaricheranno addosso. Come ogni anno è difficile dire come andrà a finire per la Nazionale, sicuramente ci saranno da aggiornare le statistiche. Certo è che, se esiste una storia recente del rugby italiano, Luke McLean ne fa parte.