Da un po’ di tempo ho un problema con l’aspetto performativo della sincerità nei romanzi. Ho apprezzato molto alcuni tentativi scoperti di auto-fiction, ma molto meno libri in cui la consapevolezza era sostituita da una studiata perdita di controllo, di discesa nei propri inferni, come se il semplice fatto di aver affrontato l’inquietudine di quell’esplorazione sotterranea fosse una prova disarmante di coraggio.
In generale, l’idea stessa di “disarmarsi” volontariamente mi sembra un semplice atto di narcisismo, al di là delle strategie con cui si decide di farlo, da un’ironia self-deprecating a una spietata autoanalisi: indagini cazzone o drammatiche sulla crisi del maschio (o della femmina) contemporanei, tra evaporazione dei padri e denaturazione delle madri, la ricerca di uno stile cameratesco o iper-emotivo, la prossimità amicale o torbida col lettore, la demolizione di tabù (a scadenza regolare e che poi evidentemente si riformano per conto loro), la mostra (con curatela affidata all’artista) di debolezze e nefandezze varie, insomma una nudità talmente calcolata da apparire l’equivalente letterario di una photogallery di celebrità appena sveglie alla loro prova “acqua e sapone”. Detto questo, non ho idea di cosa significhi davvero essere sinceri in un romanzo, né tantomeno fuori, ma ogni volta che leggo la parola “sincero” a proposito di un libro, di un disco o di uno spettacolo, ho un moto di scetticismo, e quindi adesso mi sento in crisi nel dover ricorrere proprio a questo termine per parlare del nuovo romanzo di Andrea Cisi, La piena.
Se si potesse cominciare dalla fine, prenderei le ultime righe del libro e le trascriverei qui per spiegare cosa voglio dire, ma questo pone uno di quegli odiosi problemi etici di spoileraggio. Quindi posso solo dirvi che quell’ultima pagina (che ho letto in piena notte e che mi ha fatto alzare dal letto e andare in cucina e accendermi una sigaretta e restare in contemplazione del niente in uno stato di commozione in grado di far passare del tutto in secondo piano la mia inclinazione all’insonnia) arrivava dopo un intero romanzo in cui l’esercizio della sincerità mi è sembrato l’esatto contrario di un atto performativo o (che poi è l’altro lato della medaglia) di una posa intellettuale.
La piena è la storia di un 40enne, già padre di un figlio e in attesa del secondo, operaio in una ditta metallurgica, scisso tra l’irrequietezza e il bisogno di appartenenza – alla famiglia, alla fabbrica, alla provincia, ai tornei di calcetto, alla vita che verrà. Andrea Cisi è al quarto romanzo di quella che, vista in retrospettiva, potrebbe assomigliare a una tetralogia di ispirazione autobiografica, e che parte nel 2000 con Così come viene (Transeuropa), passando per AYE. Are You Experienced? (Bevivino/Convegno) del 2003 e Cronache dalla ditta (Mondadori) del 2008, fino a La piena, tra tutti il libro più compiuto e incompiuto allo stesso tempo, forse perché più ci si allontana dalla giovinezza, più diventa sgranata la risoluzione della nostra vita, nonostante le scelte si ammantino di irreversibilità (la decisione di fare o non fare figli, l’idea di casa come posto da comprare e non più luogo da cui scappare, la morte dei propri genitori e l’angoscia di diventare – senza volerlo – uguali a loro).
Cisi ha uno stile estremamente cinematico, in grado di dipingere con poche frasi ben assestate lo scenario di una provincia smaniosa e annoiata, i momenti più delicati e struggenti all’interno di una coppia, la tenerezza comica di un figlio piccolo, i rapporti goffamente competitivi tra maschi alle prese con la fabbrica o con la tifoseria da curva, lo squilibrio nevrotico e nostalgico di un uomo desideroso di essere innamorato e spaventato dall’idea di tradire; ma soprattutto ha la formidabile capacità di creare dei personaggi. Per tirar fuori un riferimento, penserei a un mix tra la commedia all’italiana e Woody Allen, diciamo tra un C’eravamo tanto amati e Io e Annie, dove gli elementi surreali, parodistici o comici non hanno mai quel vezzo hipster e astruso da commedia del Sundance.
E se un mix del genere riesce a evocarvi qualcosa, oserei un altro azzardo: immaginatevi i diari di John Cheever riportati ai giorni nostri, ambientati nella provincia italiana (per la precisione Cremona, con tutti i suoi cambi di luce e di biancore che davvero ricordano l’ossessione per il tempo atmosferico di Cheever) e che però riescono pure a farvi a ridere. Ecco, forse significa questo essere sinceri in un romanzo.