Vaporware: termine ironico (da non confondere con il vaporwave, genere musicale) con cui si indicano i progetti informatici che vengono annunciati e poi rimandati indefinitamente, per motivi tecnici, economici, o addirittura personali – l’ossessività di un autore verso un’irraggiungibile perfezione, esaurimenti nervosi ecc. Raramente sono storie a lieto fine: il caso più famoso, forse, è Duke Nukem Forever: annunciato nel 1997, è apparso soltanto nel 2011, clamorosamente fuori tempo, accolto da critiche negative e vendite deludenti. A volte invece un progetto traballante riesce a essere corretto in corsa: è successo per Final Fantasy XV, appena uscito dopo uno sviluppo durato 10 anni – pare che a un certo punto Tetsuya Nomura, il direttore del gioco, dopo avere visto il film de I miserabili si fosse convinto che il gioco dovesse diventare un grandioso musical, e ci sia voluto un po’ per convincerlo ad abbandonare l’idea. Ma per quanto sia comunque bizzarro e a tratti tedioso (e abbia come protagonista una boy band), Final Fantasy XV alla fine è arrivato davvero, e ha dimostrato che valeva la pena di aspettare tutti quegli anni.
Adesso è la volta di The Last Guardian, terza opera di Fumito Ueda, creatore di capolavori indie-poetici come Ico (2001) e Shadow of the Colossus (2005): iniziato nel 2007, annunciato nel 2009 per PS3, sparito dai radar nel 2012, riannunciato nel 2015 per PS4, oggi The Last Guardian è finalmente diventato realtà. In molti non ci speravano più.
I titoli di testa che introducono il gioco scorrono su bellissime immagini di animali fantastici medievali: infatti i due protagonisti della storia sono un ragazzo e un enorme cane (o gatto? o leone?) piumato, con tanto di ali, corna, zampe d’uccello, e una coda da topo da cui partono fulmini – perché no? Una specie di grifone al contrario. Questa animale si chiama Trico: insieme al ragazzo, è stato fatto prigioniero in circostanze misteriose. All’inizio è ferito e ostile, ma dopo essere stato aiutato e liberato diventerà un compagno di viaggio indimenticabile.
La cosa migliore di The Last Guardian, infatti, è senza dubbio il rapporto tra il protagonista e Trico: come un vero animale a metà tra il selvaggio e l’addomesticato, Trico va continuamente spronato, richiamato, invogliato con il cibo. Per il ragazzo sarebbe impossibile fuggire dagli enigmi dell’imponente palazzo in cui è prigioniero senza l’aiuto dell’animale (e viceversa), ma la loro collaborazione si costruisce gradualmente, man mano che Trico impara a fidarsi del ragazzo, e quindi del giocatore. Questa relazione è autentica, naturale e oggettivamente straordinaria, anche in confronto al livello di AI raggiunto oggi da altri videogame dal percorso meno travagliato. E fa dimenticare i molti limiti tecnici che rendono ancora legnoso il gameplay di The Last Guardian: primo tra tutti un evidente problema di inquadratura, che negli spazi stretti del gioco continua a inciampare nel corpaccione piumato dell’animale.
Anche per questo motivo la seconda parte del gioco è un’esperienza molto migliore, quasi liberatoria: le prospettive si allargano su questo regno monumentale e incantato, la sensazione di claustrofobia passa, ed è possibile concentrarsi sulla storia e sulle continue invenzioni che Fumito Ueda ha saputo concepire durante tutti questi anni. The Last Guardian riserva al giocatore numerosi momenti di pura poesia, che rendono chiaro perché le opere di questo artista visivo adottato dal mondo dei videogame siano ancora oggi così importanti. Immergersi in The Last Guardian significa sottoporsi a un atto di fede: moderare l’aspettativa, armarsi di pazienza, cercare di ignorare i limiti tecnici: a un certo punto la magia si rivelerà al giocatore dal cuore aperto. Che poi, più in generale – anche se tendiamo a dimenticarlo, soprattutto su Internet – rimane sempre un ottimo modo per affrontare il mondo. Normale o fantastico che sia.