Anche il suo repertorio di scatti che spazia dai Beatles a Michael Jackson lo ho reso uno dei fotografi culturali più amati del ventesimo secolo, la figura di Harry Benson non si limita alle icone che ha immortalato.
In cuor suo, è sempre stato un fotogiornalista intento a veicolare delle notizie, dall’assassinio di Robert F. Kennedy alle sessioni di registrazione di We are the world, piene di cantanti famosi. Nel 1964, mentre era diretto in Africa per un racconto, venne informato che avrebbe dovuto seguire dei tali Beatles durante il loro debutto americano, e fu solo quando un evento musicale divenne la notizia più importante al mondo che Benson realizzò di aver fatto bene ad accettare l’incarico. È questo che rende le sue foto così memorabili: sono davvero candide e dotate di umanità, un aspetto che spesso si perde nei contesti fotografici più formali. «Detesto le foto in studio» ha spiegato poco tempo fa Rolling Stone. «Mi piacciono le situazioni fuori controllo. Quelle fatte proprio come me!».
E l’assenza di condiscendenza verso la fama ad aver messo le celebrità a proprio agio in sua presenza, il che era l’ideale per ritrarle nei loro atteggiamenti più naturali. In un nuovo documentario dedicato alla sua vita e alla sua carriera – Harry Benson: Shoot First – i suoi soggetti trasformatisi in ammiratori, da Donald Trump a Sharon Stone, citano il suo senso dell’umorismo affabile e la sua capacità di far chiacchierare chiunque, una dote facilitata dal suo accento scozzese e il suo modo di parlare melodioso, anche quando è brutalmente schietto. Benson ci ha accolti a casa sua a Manhattan per una conversazione senza filtri con Rolling Stone, e ci ha rivelato degli aneddoti dietro alcune foto iconiche del rock & roll.
The Beatles Parigi, Francia (1964)
Paul e John erano al pianoforte, stavano suonando I feel fine. Doveva esserci anche Ringo nello scatto, così andò nella sua stanza per prendere due bacchette e colpì un tavolino; era lui quello strano del gruppo. A me piaceva John. So che poteva essere controverso, ma nonostante alcuni aspetti sottosopra mi piaceva. Non era uno snob. Se ti incontrava da qualche parte, veniva a parlarti. Non aveva quell’atteggiamento tipo: «Non devo rivolgerti la parola per forza» che avevo riscontrato in diverse persone. E poi John fece una cosa bella per me a livello professionale. «Quando vennero [a New York] per una puntata dell’Ed Sullivan Show, saltarono in una macchina a Newark e John aprì la portiera perché c’ero io tra la folla. Disse “Vieni qui Harry. Tu stai con noi!”. Era una cosa bella, che mi permise di fare il mio lavoro e scattare foto molto riuscite. John era così. Capace di gesti del genere.
The Beatles Parigi, Francia (1964)
Questa risale alla notte in cui ci venne detto che i Beatles erano in testa alle classifiche americane. Fu il periodo in cui fecero il botto definitivo. Eravamo a Parigi e arrivarono diverse persone per intervistare Paul e John, qualche volta George: se hai solo mezz’ora di tempo a disposizione con i Beatles, non parli con Ringo, non è quello che vogliono i tuoi editor. Un giorno ero seduto con uno dei tuttofare che era andato al college con John, stavano parlando insieme, poi il suo amico si era voltato verso di me e mi aveva detto: «Adesso sai chi è il vero leader dei Beatles». Voleva dire che era chiaro si trattasse di John, parlava così bene ed era molto divertente. Il giorno successivo c’era un reporter con noi e Paul gli stava parlando. L’amico di John si era voltato per dirmi: «Ricordi cosa ti ho detto ieri? Adesso è Paul il leader». Non era possibile stabilire chi fosse alla guida del gruppo! Per me, per quel che vale, è sempre stato Paul. Lo è persino nella fotografia: è lui a tenere il cuscino sollevato in alto, è lui a creare la foto.
Paul ne aveva capito tutto il potenziale e amava lo show business. John no.
Frank Sinatra San Jose, California (1974)
Salire sul palco con lui era l’unico modo per ottenere una foto decente. Sapevo che aveva un pessimo carattere, ma stava ridendo e così pensai: «Vado lì sopra e basta». Lui disse qualcosa di saccente tipo «Non divido il palco con nessuno!». Ma stava ridendo. La foto è buona, non è grandiosa ma è meglio di quella che avrei ottenuto da sotto il palco. Misi quel bastardo di buon umore. Pensavo fosse uno stronzo. Davvero. Non potevo farne a meno. Era come Rudy Giuliani, quel tipo di stronzaggine lì. Mi capisci?
Dolly Parton Nashville, Tennessee (1976)
L’ho fotografata ovunque, per tutta casa. Mi piaceva perché ha dei bei modi. Quasi tutti gli intrattenitori del sud hanno delle buone maniere, penso sia dovuto alla religione. Ti fanno una tazza di caffè e ti portano una ciambella. Dolly è divertente. Sa perché sono lì in quel momento; sono lì per le foto.
Era intenta a fare quei gesti e io stavo passando da una stanza all’altra finché le ho detto «Dolly, rimani ferma così». Mi piaceva la luce. È una delle mie foto preferite. Capisci subito di chi si tratta. Mi piacciono le foto che si spiegano da sole.
Willie Nelson Evergreen, Colorado (1983)
Stavo preparando una storia su di lui per la rivista Life, eravamo nel suo ranch– più una casa che un ranch a dire il vero– in Colorado. Sono rimasto lì tutto il giorno, e mentre lavoravo lui era alle prese con diverse faccende, tra cui un bagno con le bolle di sapone. C’era un’altra persona nella vasca con lui, sua moglie Connie. Mi sono messo alle spalle di lei e li ho ritratti insieme, ma questa è quella che hanno scelto. A me è sempre piaciuta quella con loro nella vasca insieme. L’ho sempre trovato affabile. Alcune persone credano sia scorbutico, io penso solo che sia anziano e non voglia scocciatori attorno.
Yoko Ono e Sean Lennon Central Park, New York City (1985)
Lo hanno piazzato proprio al lato opposto del Dakota, dove [Yoko e John] passeggiavano di solito. Io li ho fatti sedere lì e poi li ho fatti camminare attraverso gli Strawberry Fields. Fu bello interagire con Sean, era un bravo ragazzino. Quando conobbi Yoko, capii perché John la amasse. Dicevano un sacco di cose negative su di lei e su come aveva rovinato i Beatles, ma per me non era quella la vera causa. John voleva davvero andarsene, come Paul del resto. E quando Paul voleva tagliare corto, non c’era modo di voltarsi indietro.
Bob Dylan e Bruce Springsteen Los Angeles, California (1985)
Erano i tempi di U.S.A. for Africa. Ero l’unico fotografo presente la sera in cui registrarono We are the world. Quincy Jones aveva appeso un messaggio all’entrata, c’era scritto «Lasciate i vostri ego sulla soglia». Erano tutti rilassati e intenti a chiacchierare. L’atmosfera era amichevole e bella, anche se all’inizio passarono una canzone zulu e Waylon Jennings disse «Io non la canto questa merda» allontanandosi dalla scena. Se ne andò senza tornare. Willie Nelson mi domandò: «Hai visto Waylon che se ne andava?» e io risposi: «Sì, l’ho pure fotografato!».
Ron Wood Memphis, Tennessee (1987)
Ron Wood era un bravo ragazzo. Stavo lavorando a una storia su Elvis e Graceland. C’era Billy Joel; poi si fecero vedere Christie Brinkley, Joan Jett e Roy Orbison e uno dei vecchi amici di Elvis, Carl Perkins. C’era anche Lisa Marie Presley. Erano onorati di essere Graceland, in qualche modo sentivano che era cominciato tutto lì. Volevano prestare una specie di omaggio. Ma era un posto davvero infernale, dentro. Quando ci entravi, capivi subito quanto Elvis fosse stupido. Non c’era neanche un libro, solo tantissimi specchi che mettevano di malumore. È difficile fare foto lì dentro. Questa era la Cadillac rosa di Elvis.
Beastie Boys Memphis, Tennessee (1987)
Anche questa è stata fatta a casa di Elvis. Avevamo organizzato la cosa in modo che venissero tutti per un servizio fotografico, ma non loro. Si trovavano lì e basta! C’era un sacco di rumore proveniente da una vecchia batteria al piano di sotto, e qualcuno disse che erano i Beastie Boys. Erano appena comparsi sulla scena musicale, li fotografai anche se non erano i programma. Forse ne avevo sentito parlare vagamente.
Michael Jackson Neverland Ranch, California (1993)
Sono sempre andato d’accordo con Michael Jackson. Mi piaceva. Era molto rispettoso e Neverland era un posto incantevole, tenuto bene, con i fiori e tutte quelle cose. Le stranezze sono iniziate lì, ma io ho un metodo: fotografare tutto quello che vedo. E quello che vedo dovrebbe fornire informazioni. Seguo la fotocamera, le persone sanno perché sono lì. Mi fecero dentro casa, mentre gli addetti alle pubbliche relazioni mi avevano avvisato che non avrei potuto farlo, continuavano a ripetermelo: «Non puoi entrare in casa!». Ma a Michael non poteva importare di meno. L’ho fotografato diverse volte e non mi ha mai causato problemi. Le persone attorno a lui sì, ma sapevo come aggirarle.