Più di 50 anni di magnifici fallimenti. Certo a pensare che Oliviero Toscani sia un fallito si fa un po’ fatica, me se lo dice da solo e quindi ci crediamo. È così che si chiama la mostra che aprirà il 16 febbraio a Milano alla Whitelight Art Gallery e che mette in mostra qualche decennio del lavoro del fotografo. Per chi conosce un minimo la storia di Toscani (e anche i sassi la conoscono) non può che pensare che il fallimento sia per lui una prospettiva, perché sentirsi arrivati significa fermarsi e lui fermo è impossibile da immaginare.
Nasce a Milano nel 1942 ed è figlio d’arte: suo padre, Fedele, è stato il primo fotoreporter del Corriere della Sera. Sono proprio il padre, la sorella e il cognato Aldo Ballo (il più affermato fotografo del design milanese) a spingerlo a non improvvisarsi, a studiare in una grande scuola se il suo desiderio è quello di diventare fotografo (e lo è, caspita se lo è). La migliore di quel momento è a Zurigo, la Kunstgewerbeschule. Il preside era Johannes Itten, il maestro del colore della Bauhaus e tra gli insegnanti c’erano alcuni dei più importanti grafici e fotografi del mondo. Toscani non sa una parola di tedesco, ma tenta comunque i difficili esami di ammissione, per lo più pratici, che vanno avanti per cinque giorni di fila. Passano in pochissimi dei 600 che si presentano e lui è uno di questi. Lì impara la teoria del colore, la tecnica e la composizione. Dello stesso periodo sono anche gli emozionanti scatti che un Toscani appena 21enne realizza a Don Lorenzo Milani, nella sua scuola di Barbiana. Si diploma nel maggio del 1965 e finalmente è su piazza: può cominciare quella che si sarebbe rivelata una carriera scintillante. Quelli sono gli anni della frattura con il vecchio mondo, gli anni dei Beatles e degli Stones, della minigonna inventata da Mary Quant, delle contestazioni. Toscani immortala quei momenti con la sua macchina fotografica e non si lascia sfuggire gli eventi salienti che contraddistinguono la sua generazione.
È in prima linea al concerto del Velodromo Vigorelli di Milano per fotografare i Beatles in occasione della loro unica tournée italiana. Baffi alla Gengis Khan, stivaletti della beat generation e ovviamente capelli lunghi, Toscani ci mette poco ad affermarsi e a diventare uno dei fotografi più richiesti dalle riviste di tutto il mondo. Agli inizi degli anni ’70 decide di trasferirsi a New York e non va a vivere in un posto qualunque: si trasferisce per qualche tempo al Chelsea Hotel, intorno alle cui stanze ruota tutta la cultura Underground della grande mela. È lì che abitano o avrebbero abitato Bob Dylan e Leonard Cohen, Iggy Pop e Sam Shepard, Tom Waits e Robert Mapplethorpe e Sid Vicious. In quel periodo Toscani si fidanza con la modella Donna Jordan e frequenta la Factory di Andy Warhol, con cui diventa amico e che gli fa spesso da modello per le fotografie. Passa le serate al Max Kansas City o al Club 57 e fotografa tutti i protagonisti della scena musicale e creativa di allora: Mick Jagger, Joe Cocker, Alice Cooper, Lou Reed.
Il suo primo grande scandalo è del 1973: fotografa in primissimo piano il fondoschiena di Donna Jordan con su i jeans della marca Jesus e ci piazza sopra lo slogan “Chi mi ama, mi segua”. Il manifesto fa il giro del mondo e le polemiche infuriano come mai prima era successo intorno a una pubblicità. È Pier Paolo Pasolini sulla prima pagina del Corriere ad ammonire tutti quei facili moralismi, parlando di come quell’immagine ponesse un fatto nuovo, una eccezione nel canone fisso dello slogan, rivelandone una possibilità espressiva imprevista. Il nome di Oliviero Toscani, e non solo le fotografie, è ormai noto in tutto il mondo.
Gli anni ‘70 sono quelli che lo vedono come forza creativa dietro i più grandi giornali e marchi di tutto il mondo: Vogue, Harpe’s Bazaar, GQ, Elle. E poi Missoni, Valentino, Armani, Esprit, Prenatal, Chanel e soprattutto Elio Fiorucci, il vero innovatore della moda a livello mondiale, con il quale Toscani stringe una forte collaborazione, oltre che un amicizia indissolubile. Nel 1982 avviene invece l’incontro che cambia il mondo della comunicazione: Toscani inizia a realizzare le campagne per Benetton, dando vita a una serie che ognuno di noi ha ben stampata nella mente. Inventano il marchio United Colors Of Benetton, quel rettangolino verde che sarà posto sulle fotografie che scuoteranno le coscienze del mondo. Anziché usare foto di moda, Toscani con le campagne Benetton parla di razzismo, fame nel mondo, AIDS, religione, guerra, violenza, sesso, pena di morte. In quegli anni attira su di sé pesantissime accuse, quelle di sfruttare i problemi del mondo per fare pubblicità ai maglioni. È l’esatto contrario: Toscani usa il mezzo pubblicitario per parlare dei problemi del mondo. Anche dopo Benetton i suoi “scandali via advertising” arrivano puntuali: dà uno slancio alla discussione sulla regolamentazione delle unioni gay, creando una grande campagna che mostra una coppia di omossessuali giocherellare teneramente su un divano o spingere un passeggino. Nel 2007 invece scuote violentemente il fashion system, facendo trovare pronta proprio per la settimana della moda di Milano una campagna con la fotografia di una ragazza anoressica completamente nuda, a mostrare i segni distruttivi della malattia che le case di abbigliamento invece sfruttano.
Sì, ci siamo un po’ dilungati. Ma raccontare la storia di Toscani non è cosa semplice. Alla Whitelight Art Gallery dello spazio Copernico di Milano dal 16 si potranno vedere centinaia di immagini, che meglio delle parole racconteranno una vita incredibile. C’è anche una novità assoluta: oltre a portarsi a casa le fotografie esposte, sarà possibile anche acquistare (rigorosamente su prenotazione durante la preview del 15 febbraio e a numero chiuso) il proprio ritratto “espresso” realizzato da Toscani, diventando protagonisti di un suo shooting creato appositamente per l’occasione.
Ah, una cosa che non possiamo non dirvi: in mostra ci sarà anche il primissimo piano di un africano con due occhi diversi tra loro, fotografia con la quale Toscani lanciò il suo centro di ricerca, FABRICA, nel 1993. Non lo aggiungo solo perché è la fotografia preferita di chi scrive, ma perché David Bowie fu così colpito da quell’immagine da decidere di scriverci su una canzone, Black Tie, White Noise. Ecco, giusto per farvi capire quant’è figo Toscani.