Alla fine dei conti la street art piace perché è facile. Non ha troppi fronzoli, è frontale e diretta. Ora, per non farmi aggredire dai writer (è gente difficile) cercherò di puntualizzare: sembra facile, ma non lo è. In realtà ogni autore porta con sé storie e riferimenti molto profondi. Dalla fine degli anni sessanta, negli Stati Uniti, la street art si è affermata come vera “arte d’istinto” (infatti erano spesso le minoranze etniche o comunque gli “emarginati” a praticarla). Bisogna dire che col passare del tempo si è infighettita, ma anche evoluta: ha lasciato la residenza fissa dei muri per approdare in musei e gallerie e consegnare ai mercati e alla storia dell’arte i writer. Il più noto di questi è sicuramente Keith Haring, che è anzitutto uno street artist, ma anche molto di più.
Finalmente l’artista verrà celebrato nel tempio delle mostre italiane, Palazzo Reale di Milano, vera eccellenza culturale guidata da Domenico Piraina. Dal 21 febbraio al 18 giugno 110 opere verranno esposte per dimostrare appunto che la ricerca di questo artista è da individuare in riferimenti molto significativi.
Il padre è un ingegnere e fumettista dilettante ed è lui a “iniziare” all’estetica il piccolo Keith, nato il 4 maggio del 1958 e cresciuto tra cartoni e fumetti nella fin troppo tranquilla cittadina di Kutztown, in Pennsylvania. La parte del leone (come sempre) la fa però la madre, che lo porta all’Hirshhorn Museum di Washington dove Haring ammira a bocca aperta la grande opera di Andy Warhol dedicata a Marilyn Monroe.
È del 1974 la prima opera conosciuta di Keith Haring, ed è un pezzo di carta alto 40 cm e largo 60 dove con un pennarello disegna quella che in quel momento è la sua iconografia di riferimento: fumetti e cartoni, ma anche droga e alcol, con i quali Haring avrebbe fatto i conti per tutta la vita. A fare da contorno in questo piccolo affresco che già tanto dice sul percorso che avrebbe intrapreso, i nomi della band che ascolta incessantemente: Beatles, Aerosmith, Black Sabbath e Humble Pie. A 18 anni si diploma alla High School di Kutztown e finalmente può trasferirsi a Pittsburgh per frequentare la Ivy School of Professional Art, dove si iscrive ai corsi di grafica pubblicitaria. Studia molto gli artisti che in quegli anni la fanno da padrone nel panorama internazionale, come il pioniere dell’Art Brut Jean Dubuffet, “l’impacchettatore” Christo, ma anche gli scomparsi Pollock e Paul Klee.
Da questi assorbe ogni cosa, ma ciò che lo esalta davvero è il concetto di linea. Di linea continua. I suoi lavori sono segni grafici che sembrano geroglifici, dalle linee fittissime e con l’inchiostro che emerge prepotente e sembra schizzare fuori dalla superficie. Soprattutto la metropolitana diventa il suo laboratorio: approfitta degli spazi pubblicitari vuoti per riempirli di disegni realizzati con il gesso. È lì che compare per la prima volta, nel 1980, il Radiant Baby, che sarebbe poi diventato il simbolo identificativo dell’arte di Keith Haring: un bambino a carponi dal quale escono raggi luminosi. Il riferimento è chiaramente all’iconografia cristiana, dove questi raggi rappresentano la grazia divina, mentre nei disegni di Haring sono messaggi di speranza e di potenza, di amore e ottimismo.
Tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80 passa il tempo nelle saune omosessuali e nei locai più in voga in quel momento, come il Mudd Club, il Club 57 o il Max’s Kansas City, ma diventa anche l’assistente del grande gallerista Tony Shafrazi, che nell’ottobre del 1982 organizza una mostra interamente dedicata ai suoi lavori: Keith Haring esplode. Diventa amico di Warhol, Basquiat e Madonna (anche lei agli esordi) e si fidanza con il dj afroamericano Jean Dubose. Viene invitato alla Biennale del Whitney Museum e Elio Fiorucci, riconosciuto internazionalmente come il più grande avanguardista del mondo della moda, lo chiama a Milano mettendogli a disposizione l’intera Gallerie Passerella, il suo negozio principale, e glielo lascia colorare come meglio crede.
Diventa in brevissimo tempo una super star e oltre a fare milioni nelle gallerie più importanti, realizza murali in tutto il mondo su palazzi, chiese, ospedali, capannoni e persino sul Muro di Berlino, quando il Mauer Museum decide di rivolgersi a lui per mandare un messaggio di pace attraverso un murale lungo oltre 300 metri, che andrà ovviamente perso con la caduta del muro nel 1989. Nel 1988 viene a sapere che il suo vecchio fidanzato Juan Dubose è morto a causa dell’AIDS. L’insorgere delle macchie tipiche della malattia sul corpo di Haring, vengono da lui avvertite come una condanna a morte che stava aspettando da un momento all’altro. Continua a lavorare, spesso nelle sue opere raffigura il virus come il diavolo. Non smette nemmeno di girare il mondo: Amburgo, Brooklyn, Barcellona, Monaco, Chicago, New York.
È particolarmente commovente e toccante la tela The Last Rainforest, una sorta di chiusura del cerchio, una tela densissima che a prima vista sembra uno scenario apocalittico. Ci sono la violenza, il sesso, la malattia, la morte, l’ambiente devastato. Però, mimetizzato in quello scenario infernale, al centro si vede un piccolo Radiant Baby, protetto da un albero come in un grembo. La speranza c’è ancora dunque, ma l’AIDS vince su Keith Haring il 16 febbraio del 1990, uccidendolo nella sua casa di Soho, a Manhattan.
Questa retrospettiva milanese curata dal bravissimo Gianni Mercurio dunque va assolutamente vista, perché potremo trovare una esaustiva ricostruzione del suo lavoro e della sua storia, con alcune opere di dimensioni notevole che avvolgono e commuovono. E chissà che vi appassionerete così tanto da andare poi verso Pisa, dove possiamo trovare l’ultimo grande lavoro pubblico (forse possiamo dire il suo testamento addirittura). Tuttomondo, un gioioso, coloratissimo, potente affresco contemporaneo, dove decine dei suoi personaggi si scatenano in una danza evocativa e liberatoria.
Pochi mesi prima di morire Haring ha dichiarato in un’intervista a Rolling Stone, che quando era piccolo pensava che sarebbe morto giovane e per questo aveva vissuto come se se lo aspettasse. Ha anche aggiunto «Ho fatto tutto quello che volevo». Allora perdiamoci nelle sale di Palazzo Reale, andiamo oltre la tela e cerchiamo di capire. Chissà che anche noi potremo accorgerci che sì, Haring deve aver davvero detto tutto ciò che aveva da dire.