Lucio Dalla non scriveva per i critici, per i discografici, per la gloria o per la fama. Forse neanche solo per l’arte, che accarezzava con un talento unico, selvaggio, totale ma di cui non era schiavo. Lucio scriveva e cantava per la gente, per le persone normali, per parlar loro e (ri)conoscerli e (ri)conoscersi. Per questo la sua morte, cinque anni fa, è stata lacerante non solo per gli ammiratori ma per un tessuto sociale e umano collettivo che si è sentito defraudato di qualcosa di necessario. Di quel piccolo grande uomo che generosamente sapeva consolarti, guardarti dentro e trovarci anche quello che tu nascondevi a te stesso, eccitarti, divertirti, aprirti gli occhi, squassarti l’anima.
Ecco perché cinque anni dopo fai fatica a ricordarti che non ci sia più, quella musica ancora viva, pulsante ti impedisce di realizzarlo. E allora l’unico modo per fare un film su Dalla era riconoscere quest’inevitabile immortalità, scoprire che da voce è diventato sangue, motore e soprattutto sempre attore delle nostre vite. Lucio ci parla e noi, forse, abbiamo il dovere di rispondergli, è questa l’intuizione di Caro amico ti scrivo, in sala fino all’8 marzo. Ecco perché Riccardo Marchesini, grazie alla sceneggiatura di Cristiano Governa che al cantautore bolognese dedicò lo spettacolo teatral-epistolare omonimo ora divenuto film complementare a quell’esperienza, ci ha regalato un’opera potentissima nella sua apparente semplicità.
Ci sono più canzoni che sul palco – e non c’è Cosa sarà – e il grande schermo regala un’emozione diversa. Non migliore, ma differente, come se l’uno non potesse vivere senza l’altro. L’anno che verrà e la confessione di un prete, Com’è profondo il mare e la vita notturna e innocente di un padre, Futura, cittadina del mondo e figlia rifiutata e scelta, Meri Luis alla ricerca dei suoi inconsapevoli compagni di viaggio, La casa in riva al mare e una storia d’amore che è meravigliosa perché non pretende nulla e sogna troppo, Milano che sembra ancora più Milano dopo anni che l’ha cantata, Anna e Marco che abbiamo sempre voluto sapere che fine avessero fatto. E Stella di Mare, come conclusione di un viaggio che ci trascina, ci abbraccia, ci commuove, con quella voce unica e rampicante, che ti si piazza in mezzo ai cinque sensi e tu sei quasi imbarazzato per quanto ti entra dentro e sembra tua, ma non lo è.
Governa trova le parole, bellissime, di lettere che parlano a Lucio di come si siano (ri)conosciuti grazie a lui, di una postina che si incarica di spiare l’umanissimo genio di un gigante nel corpo di un bambino, bellissimo persino quand’era brutto (che meraviglia la voce, la presenza scenica, il sorriso, il talento discreto di Federica Fabiani), così presente da non aver bisogno neanche di essere intravisto. Marchesini compone le immagini, con le armi della suggestione, della descrizione mai banale, del montaggio emozionale e allo stesso tempo intuitivo (non è un caso che se lo sia tenuto per sé), riuscendo nel miracolo di essere all’altezza di parole impareggiabili, di seguirle, pedinarle, anticiparle e scappare via con loro. Di essere narrativo, di dar corpo a storie eccezionali di persone normali – ma che sono anche il contrario – e di farci capire che come forse solo Fabrizio De André Lucio Dalla ha saputo essere artista tra gli uomini e degli uomini, poeta di esistenze laterali, biografo di se stesso, di una generazione, di un paese e di un viaggio comune in un’Italia che ne ha passate tante che lui ci ha raccontato in tanti piccoli capolavori diversi, ma a volte anche nelle stesse parole di uno solo di essi.
Si appiccica, Lucio, grazie alla maestria di Marchesini e alle parole di Governa, potenti ma mai retoriche, su visi di attori che si affidano al vento dei suoi versi, ognuno di loro, dal viso archetipico di Bob Messini, che sembra caduto da una sua canzone, a quello candido e seducente di Selene Demaria, dalla dolente e dolce Rita Colantonio al sorriso speranzoso e disperato di Cristina Casale, alla bellezza titubante di Stefania Medri e gli occhi curiosi e solo apparentemente disincantati di Lorenzo Adorni (e citando loro ci complimentiamo con tutti, tutto il cast, che si prende in ogni singolo elemento una nota di Dalla e la suona perfettamente).
E le lettere, quelle lettere, idea semplice e geniale come quelle alla base dei pezzi del cantautore, sono affidate a grandi attori (Ambra Angiolini, Alessandro Benvenuti, Piera Degli Esposti, Neri Marcoré, Ottavia Piccolo, Andrea Roncato e Grazia Verasani) che non le leggono, ma le animano. Senza virtuosismi, ma come fossero essi stessi strumenti suonati come nella canzoni del nostro “caro amico”, mai con lo stesso ritmo e melodia, sempre come se fosse la prima o forse l’ultima volta. Sono la sua voce, la sua musica, la vita che raccontava, della sua Bologna, del vicino di casa, di una notte, su una panchina, davanti al muro di Berlino.
Ecco, alla fine, Caro Lucio, ti ho scritto anche io. Volevo fare una recensione e invece riascoltando Merdman, uscita fuori per caso dal giradischi su cui ho poggiato un tuo vinile, ho aggiunto una lettera anche io. Scritta peggio di quelle del film. Come posso salutarti? Dicendoti che mi manchi e che ci sei e che Riccardo, Cristiano e tutti gli altri sono stati bravi. E grazie di tutto, Boris.