Ho sognato per molti anni di trovarmi di fronte ai Decibel che cantano per me Vivo da re. C’è tutto, lì dentro: chitarre che guardano lontano e un testo come ne avremmo, anche a distanza di decenni, trovati pochi nelle discografie della nazione; sinergia assoluta suono-parola, un crescendo inarrestabile che accompagna, lentamente e perfettamente, lo svelamento della disperazione del protagonista che, vuole farglielo credere, ma non vive da re… perché lei non c’è.
Dopo anni di intima esaltazione adolescenziale (e non) davanti a versi come “di rose e di noia devi essere stanca” o “che strade percorri toccando in cuscino? A volte lo so mi vorresti vicino” ho quindi corso piacevolmente il più grande rischio in fatto di musica live: il rischio reunion.
L’ho fatto con una certa cognizione, sapendo bene quanto Enrico Ruggeri sia ancora in grande forma e avendo ascoltato il nuovo album, Noblesse Oblige, che, fatta eccezione per un paio di episodi, è il risultato davvero riuscito di un ritorno alle origini che sapientemente sceglie di non ignorare la strada percorsa nel mentre, riuscendo nel compito, invero complesso, di mantenere vivo uno stile, un approccio e soprattutto una poetica delle origini non sottraendosi però alla realtà: le trasformazioni del mondo e la mezza età – ben processata – di chi sta cantando. Ecco allora che, a fronte di questa sincerità, è stato facile per chi scrive superare gli ostacoli interposti tra immaginario e realtà, i chilometri di pashmina da uomo avvolti intorno al collo del 70% del pubblico, una situazione da poltronissima piuttosto distante dall’ideale new wave che è il motivo per cui ci troviamo tutti lì.
Tra magliette dei Toto, orecchiate conversazioni su Alan Parson, qualche sedicente VIP del piccolo schermo e molte giacche in finta pelle, al Teatro della Luna, a un passo dal Forum di Assago dove, quasi per uno scherzo del tempo e degli incroci generazionali stanno per esibirsi Fedez e J.Ax, serpeggia una certa comune eccitazione, figlia specialmente della curiosità di vedere cosa succederà e, per quanto mi riguarda, di capire cosa è rimasto.
A chiarire i dubbi è il pezzo scelto per entrare in scena: Walk on the wild side dei Lou Reed che, strumento dopo strumento, introduce ogni elemento della band e spiega immediatamente ogni intento: il concerto sarà un viaggio a ritroso nella storia del gruppo e sarà – e Ruggeri lo spiega in più momenti tra un brano e l’altro – soprattutto l’occasione per rievocare, riesumare e riproporre i bollori e i fasti di una giovinezza trascorsa nelle cantine a lasciarsi ispirare da una Milano troppo poco marcia rispetto al sogno di New York, raccontare dunque i tempi che hanno ispirato Decibel, la canzone che chiude il masterpiece del gruppo, Vivo da re. Figli di transistor e computer, di fascinazioni metropolitane, dell’immaginario della rockstar presto sostituito – e lo dice con tristezza, Ruggeri, da quello ben più prosaico del cantante: questo sono stati i Decibel e questo ci racconteranno stasera.
E allora, si parte: intervallate da brani del nuovo album, ci sono i grandi classici, su Il lavaggio del cervello il pubblico, quel pubblico apparentemente così vario ma così agee e disabituato ai live, inizia a perdere le staffe, si percepisce sensibilmente che le poltrone si stanno facendo calde e che stare fermi e seduti nel teatrone praticamente sold out, è sempre più difficile. Ci sono, certo, anche le ballate in stile del nuovo album ma, soprattutto, ci sono Superstar, Indigestione disko, A disagio, Tanti auguri e quel senso di interruzione plastica, per niente necessaria, non richiesta a un concerto che ormai non è più quella cosa pettinata che sembrava, lì in quel teatro di tempi imbolsiti.
Adesso il rock’n’roll avvampa e il secondo tempo, che inizia con un omaggio imprevisto a David Bowie con un’esecuzione – ottima, di The man who sold the world, è tutto fatto per farci abbandonare i nostri posti. Succede in fretta, infatti, che un buon numero di presenti lasci il velluto della propria poltrona per correre sotto il palco, costringendo insomma il resto del teatro ad alzarsi in piedi contribuendo finalmente a rigenerare l’atmosfera effettiva del live. Ruggeri ci sguazza, non vedeva l’ora, il cantante si trasforma per un’ora nella rockstar della sua giovinezza e il concerto diventa, finalmente, un concerto rock, in grado di ridimensionare, proprio come volevamo che fosse, almeno un po’ del tempo trascorso.
E allora finalmente arrivano Teenager, tornano i Velvet Underground con una buona versione di Sweet Jane ed ecco Decibel, il manifesto di cui si diceva poco su che manda letteralmente in delirio il pubblico. Noto, a lato, accanto a una maschera del teatro, un tizio che fa il saluto romano durante l’esibizione, un’immagine inquietante, figlia senz’altro di quella leggenda metropolitana che voleva i Decibel esempio di punk rock di estrema destra. Con Pernod sale sul palco anche Pino Mancini, originario membro della band lì per il gran finale, che infatti arriva: Vivo da re, primo brano del bis, eseguito in una versione a metà tra l’originale e quella contenuta, riarrangiata in modo poco convincente, in Noblesse oblige, è un coro, il vero momento cult, di rito, dell’intero live.
Pubblico in piedi: qualcuno cammina sulle poltrone per raggiungere i piedi del palco ed ecco che arriva Contessa, effettivo ultimo brano e ultimo riflettore acceso su una delle migliori reunion italiane mai viste, messa a fuoco da una preparazione tecnica che, manco a dirlo, mette sensibilmente all’angolo con poche mosse, tanta contemporaneità.