Ultimamente quando esce un nuovo album, mi capita spesso di chiedermi: “Aspe’, ma questo non l’aveva appena fatto un disco?”. Non è una mispercezione di schiacciamento temporale, quanto lo stakanovismo di un Woody Allen applicato di default all’industria musicale. Feist, che torna dopo sei anni, sembra fregarsene di questa ansia prestazionale.
L’iper-produttività dovrebbe essere l’antidoto all’oblio, ma non si può proprio dire che nel frattempo sia stata dimenticata, o peggio ancora ricordata solo per quella superhit, super jingle, 1234, tormentone di carineria che avrebbe potuto ingabbiarla per sempre. Se già con Metals si era smarcata da un pericolo simile, con Pleasure è in grado di trasformare la sua maturità in una sensualissima forma di eversione giovanile, ruvida e raffinata.
In Lost Dreams o Pleasure, il pezzo di apertura, è impossibile non ritrovare PJ Harvey (la Polly che mi è dispiaciuto non ritrovare nel suo ultimo album), e la reiterazione finale di quel pleasure riecheggia il vicious di Lou Reed, tanto che la parola stessa si prende tutta la scena lanciandosi in un assolo performativo che genera letteralmente piacere.
Feist ritrova uno stile intimista e acustico (un po’ caramelloso nei “la la la la”) in Get Not High, Get Not Low e riesce a creare un potenziale classico (una Carole King più rumoreggiante) in un pezzo come Any Party, dove i versi d’amore mischiano struggimento e ironia. Come se non bastasse, regala un gioiello quasi perfetto con Century, dove il cantato freddamente seducente di Jarvis Cocker, che arriva sul finale a sciorinare numeri, sembra la risposta irriverente al loop di quel 1234 di un “secolo” fa.