Chiunque abbia avuto la fortuna di trovarsi a festeggiare l’esito del referendum sul divorzio, la notte del 13 maggio 1974 a Roma, ha ancora negli occhi l’immagine di Marco Pannella arringante su un podio improvvisato a Porta Pia. Non tripudiava per la vittoria prevista da pochissimi. Instancabile, ingaggiava nuove battaglie. Fosse stato per lui si sarebbe dovuto iniziare quella notte stessa, senza neppure brindare al voto che aveva rivelato quanto l’Italia fosse cambiata. Quel comizio notturno era la consacrazione di una star della politica italiana. Forse la prima, perché se oggi appare ovvio che un partito si identifichi totalmente con il leader, e che quel leader calchi le scene come un consumato attore, nella prima Repubblica le cose stavano diversamente. Pannella era un’anomalia. Ci sono voluti decenni per scoprire che aveva aperto una strada, indicato una direzione.
Da quel palcoscenico Giacinto Pannella, detto Marco, non è più sceso. Ha campeggiato fino all’ultimo, torreggiando dai suoi 190 cm e passa di statura, con la lunga coda di cavallo bianca come la neve sempre curatissima, impegnato stavolta in una guerra contro non uno, ma due cancri: perché Marco Pannella è esagerato, straripante, in tutto. Anche nella malattia affrontata senza rinunciare a una sola boccata delle sue sessanta sigarette quotidiane. Pannella, croce e delizia di chiunque incroci la sua strada. Dei politici sempre sotto tiro, certo, ma non solo. È un incubo per i malcapitati cronisti a cui tocchi l’ingrato compito di intervistarlo: la prima risposta occupa un paio d’ore, e prima della seconda il tempo è scaduto, gli impegni incalzano, sarà per la prossima volta. È un flagello per i tassinari della Capitale, che quando lo vedono avvicinarsi fuggono. Sanno che il litigio è inevitabile. Non si contano gli autisti a cui è capitato di vederlo scendere a metà corsa, insalutato ospite, solo per avergli chiesto di spegnere l’immancabile sigaretta.
I difetti di Pannella, il narcisismo estremo, l’irruenza torrentizia, il vittimismo spesso sbandierato ad arte li conoscono tutti. Ma tutti sanno anche di dovergli molto e qualcuno tutto, persino la vita, come il magistrato Giovanni D’Urso sequestrato nel dicembre 1980 dalle Brigate rosse. Per non ammazzarlo chiedevano la pubblicazione di un loro comunicato. Molti giornali e la Rai rifiutarono, Pannella mise lo spazio destinato al suo partito su Tribuna politica a disposizione della figlia del rapito, che lesse il comunicato e salvò il padre. Quello del magistrato è un caso estremo, certo. In compenso sono milioni quelli che devono al logorroico più famoso d’Italia qualcosa d’importante.
Il divorzio per esempio, che senza la sua Lid, Lega italiana divorzio, fondata nel ’66, quando era padre e padrone di un Partito Radicale da appena tre anni, sarebbe arrivato in Italia chissà quando. E senza la sua vigilanza occhiuta la legge sul divorzio, approvata nel ’70, sarebbe stata strangolata in culla. Il Pci temeva tanto il referendum abrogativo voluto dalla Dc da essere pronto a cedere il cedibile pur di evitarlo. Poi l’aborto, anche quello un referendum abrogativo voluto dal fronte contrario alla legge sull’interruzione di gravidanza. Pannella, con una delle sue trovate migliori, rispose controproponendo un referendum alternativo che mirava ad allargare le maglie della legge. Furono sconfitti entrambi, nel 1981. Però non si trattò certo di pareggio.
Ma la lista delle guerre di Marco è interminabile: la fine del servizio di leva obbligatorio, i diritti gay, la depenalizzazione dell’uso privato degli stupefacenti, sovvertita da quella legge Fini-Giovanardi che la Corte costituzionale ha poi dichiarato incostituzionale, la campagna contro la pena di morte nel mondo e contro l’ergastolo in Italia, quella per il diritto a decidere sulla fine della propria vita e quella sulla libertà della ricerca scientifica anche quando, come nel caso della ricerca sulle cellule staminali viene osteggiata dall’etica religiosa. Molte volte Marco Pannella ha vinto, molte altre ha perso. Nonostante sia riuscito a mobilitare addirittura il Papa e il presidente della Repubblica a favore di un provvedimento di indulto e amnistia, la paura dei partiti è stata più forte. La campagna per rendere più civili le carceri italiane è per ora fallita, così come quella per l’abolizione dell’ergastolo e parecchie altre. Ma il leader radicale è puntualmente riuscito a imporre i temi delle sue crociate, a renderli urgenti per l’intera opinione pubblica, anche quando sembravano troppo astratti per coinvolgere al di fuori di ristrette cerchie.
Ce l’ha fatta grazie agli aspetti più impervi del carattere, alla testardaggine, all’egocentrismo e all’ossessività: è uno di quelli in cui separare le doti dai difetti non è possibile. Deve ai secondi quasi quanto ai primi. Anche il metodo delle sue lotte politiche, Giacinto detto Marco se lo è fatto dettare dal naturale istrionismo. In un universo dominato dalle trattative discrete e dagli accordi sotto banco come quello della politica italiana, Pannella e i suoi Radicali hanno puntato tutto sulla platealità del gesto provocatorio. Hanno fumato e offerto spinelli spesso sotto gli occhi della forza pubblica, “regalando” alla conduttrice Rai Alda D’Eusanio, nel 1995, addirittura 200 grammi di hashish. Negli anni della mobilitazione per la legge sull’aborto, le dirigenti e i dirigenti del partito si sono autodenunciati confessando di aver agevolato clandestinamente migliaia di aborti. Pannella ha sottoposto il proprio corpo allo stress permanente di un rosario di scioperi della fame e della sete che avrebbe demolito persone dalla costituzione meno robusta. Se necessario, come quando nell’80 cercava le firme per un’ondata di ben dieci referendum, non ha esitato a presentarsi in tv mascherato da clown.
A tutt’oggi questa metodologia politica, a metà strada tra Gandhi e la teatralità, resta un copyright dei Radicali. Ma non è detto che il leader del PR non si riveli anche in questo un precursore, come gli è capitato spesso non solo nel metodo ma anche nel merito delle sue crociate. Quando iniziò la crociata contro il sistema dei partiti della Prima Repubblica, l’“ammucchiata della partitocrazia”, sembrava davvero un desolato don Chisciotte. Però nel 1978 il suo referendum contro il finanziamento pubblico ai partiti raggiunse il 43,6%, pur essendo una sfida dei Radicali contro tutti. Quindici anni dopo, quelle parole d’ordine erano merce comune. Il nuovo referendum sull’abrogazione del finanziamento pubblico, nel ’93, fu trionfale. Ma sbaglierebbe di grosso chi, non avendo vissuto quegli anni, immaginasse un conflitto livoroso e pieno di rancore tra Pannella e i capi della Prima Repubblica. Tra quel sistema e il censore che non perdeva occasione per denunciarne i vizi correva un rapporto intimo. Il potere riconosceva in Marco la propria cattiva coscienza. Lo apprezzava come una sorta di monito permanente, il cui martellamento rammentava a tutti cosa la Repubblica avrebbe dovuto essere, cosa aveva promesso di essere.
L’esempio più eloquente è di certo l’eterno conflitto con Francesco Cossiga, che a guardarlo da lontano sembrerebbe un prolungato duello rusticano. Quando nel 1977 i Radicali decisero di violare il divieto di manifestare a Roma imposto dal ministro degli Interni Cossiga, ci rimise la vita una ragazza, Giorgiana Masi, e Pannella accusò proprio Cossiga di omicidio. Quando poi Cossiga si trasformò nel presidente picconatore della Repubblica, Pannella lo denunciò per attentato alla Costituzione. Però proprio in quei giorni, nel corso di una delle tante campagne del partito per l’autofinanziamento, l’attentatore si presentò da Marco col suo bravo milioncino in contanti. E quando il picconatore era prossimo alla fine il messaggio più commosso fu proprio quello dell’arcinemico: «Spero ardentemente che ce la faccia. Come potrebbe compiere un orrendo tradimento verso un intimo amico andandosene per togliermi ogni speranza di potergli portare un giorno le arance in carcere?».
Pioniere della politica moderna in tante cose, Pannella non lo è nella degenerazione incarognita del confronto. Può mimarla e lo fa spesso. Ma sempre di spettacolo e recitazione si tratta. Figurarsi se a uno così smagato nell’arte sottile della propaganda potevano sfuggire le enormi possibilità offerte dal portare alla ribalta personaggi che, per la loro biografia o per le vicende che li avevano visti coinvolti, rappresentavano di per sé una provocazione fragorosa. Come un principe di Madison Avenue, Marco si è sempre preoccupato di accompagnare alla campagna di turno il testimonial adatto: Domenico Modugno, colpito da ictus nell’84, per quella a favore dei disabili, Luca Coscioni, docente malato di sclerosi multipla per quella sulla libertà di ricerca, Eluana Englaro, in coma per 17 anni, e suo padre Beppino per la campagna sulla libertà di morire.
C’è stata anche la pornostar Ilona Staller. Candidata nel 1987, risultò la più votata dopo il leader, ma l’esito fu deludente. L’attività di Cicciolina non andò mai oltre la meccanica e svogliata esposizione di una tetta in pieno emiciclo.
La delusione era stata molto più cocente con Toni Negri, detenuto per il “processo 7 aprile” e candidato nel 1983. La provocazione si inseriva nel quadro della campagna contro le leggi emergenziali e avrebbe dovuto essere dirompente. Pannella sapeva che non ci sarebbe voluto molto perché il Parlamento autorizzasse un nuovo arresto per Negri, accusato di essere la testa del terrorismo rosso. A quel punto l’onorevole detenuto avrebbe dovuto chiedere, come suo diritto, di partecipare a tutte le sedute della Camera, scortato da guardie armate. L’effetto sarebbe stato un clamoroso stillicidio. Invece il professore preferì la latitanza, fuggendo proprio mentre Pannella annunciava solennemente che si sarebbe costituito.
Con Enzo Tortora andò in maniera opposta. Il popolarissimo presentatore, arrestato per la falsa accusa di un pentito di camorra, fu eletto nel 1984 al Parlamento europeo. Condannato in primo grado si dimise, rinunciando così all’immunità. Negli ultimi anni della sua vita Tortora, assolto in appello e in Cassazione, dedicò tutte le sue energie alla politica radicale, diventando il testimonial della campagna per il referendum sulla responsabilità civile dei magistrati dell’87. Quel referendum occupa un posto particolare nel palmarès di Pannella. È una delle sue più brillanti vittorie e delle più brucianti sconfitte. Il quesito fu approvato con oltre l’80% dei voti, ma l’esito del referendum fu ignorato come se nulla fosse.
Pannella è stato un precursore anche sotto un altro aspetto. Chi può dire, infatti, se sia stato di destra o di sinistra? Di sinistra sono state di certo le innumerevoli campagne sui diritti civili. Però in politica economica ha portato la fede liberale agli estremi, fino a sconfinare nell’apologia del liberismo. E proprio lui, il pacifista che nell’80 aveva fatto votare un preambolo in cui si definiva la non-violenza “legge storicamente assoluta senza eccezioni, nemmeno quella della legittima difesa”, si poi è schierato a favore dell’intervento militare nel Kosovo del 1999 e contro il ritiro delle truppe italiane dall’Afghanistan.
Lui stesso, del resto, negli anni bipolaristi della seconda Repubblica ha civettato con entrambi i poli. Un po’ per convinzione e spirito di contraddizione, un po’ perché la sua ossessione fissa è salvare la sempre pericolante Radio Radicale, fondata nel 1976. Per farcela ha trattato davvero con tutti, ma la posta vale la candela. Gli archivi di quella meritoria radio hanno e avranno per cronisti e storici un valore inestimabile. I molti che di recente hanno preso gusto a dichiararsi “né di destra né di sinistra”, però, dovrebbero esitare prima di iscrivere il radicale “larger than life” nel loro albero genealogico. Perché l’affermazione non suoni stridente come una moneta falsa bisogna avere la personalità e la biografia di Marco Pannella. Non è da tutti.