«Non siamo neanche una vera band. Siamo quattro ragazzi di Leeds che suonano qualcosa insieme. Preferiamo essere dei tipi normali e fare musica interessante, piuttosto che crederci una grande band ed essere mediocri». Gli Alt-J si sono presentati così quaLche anno fa, con una rivendicazione che sembrava cucita su misura sull’identità della loro generazione e una dichiarazione di intenti: siamo giovani digitali padroni della tecnologia decisi a catturare l’attenzione del pubblico facendo musica per sottrazione.
Una generazione che è perfettamente in linea con gli strumenti del proprio tempo, li conosce e sa usarli bene, esattamente come chi nell’età dell’oro del rock usava la chitarra elettrica per esprimere se stesso e le sue idee sul mondo. Si parla molto della ricorrenza del 50esimo anniversario della Summer of Love e del ritorno di un’ondata di creatività nel 2017. Bene, se vogliamo cercare dei protagonisti di questa rinascita culturale, oltre alle star consapevoli, multimediali e supersocial e ai geni contemporanei che fanno musica con il telefonino (tipo Steve Lacy, il 18enne che ha fatto le basi di DAMN., il nuovo disco di Kendrick Lamar), dobbiamo inserire nell’elenco anche i quattro ragazzi normali di Leeds di cui quasi nessuno si ricorda la faccia. Perché oggi gli strumenti della creatività sono apparecchiature digitali, beat elettronici, atmosfere immateriali, persino sequenze matematiche di suoni o i tanto temuti algoritmi.
Quindi, il discorso diventa più semplice: certo, è esistita un’età dell’oro e forse non si ripeterà mai più, ma oggi come allora gli strumenti giusti nelle mani delle persone giuste sono in grado di produrre grandi cose. È questo il significato importante di Relaxer, nuovo capitolo nel processo di digitalizzazione del suono di una rock band portato avanti dagli Alt-J e straordinaria risposta alle aspettative e al seguito di culto generate dal loro secondo album This Is All Yours che li ha scaraventati dritti al primo posto in classifica in Inghilterra e sul palco (sold out) del Madison Square Garden di New York.
La band che suona per sottrazione e sembra più di ogni altra impersonificare il credo dei Radiohead di How to Disappear Completely si chiude nel proprio universo rarefatto e ci si perde consapevolmente dentro, costruendo un esempio perfetto della creatività digitale applicata alla musica nel 2017. Relaxer è un disco sospeso, ma sempre in equilibrio: otto canzoni che sembrano un flusso senza interruzioni, non troppo lunghe e non troppo cerebrali, ma profondamente innovative, musica priva in modo quasi sfacciato di qualsiasi confine, un disco in cui gli Alt-J alternano atmosfere surreali, ritornelli pop deviati, malinconia acustica (Last Year), gusto dell’assurdo (i cori di Adeline o le voci giapponesi di Deadcrush) e molto altro.
Ci troviamo di fronte a una generazione onnivora che ragiona solo in orizzontale e mette insieme tutto, e tra di loro ci sono alcuni artisti che riescono a trasformare la visione in creazioni di valore. Gli Alt-J sono tra questi, e non si fanno nemmeno troppi problemi a raccontarlo con intelligente sincerità nei comunicati stampa ufficiali: “Le parti di fiati di Relaxer sono state registrate negli studi di Abbey Road. Le tastiere invece le abbiamo fatte con un Casiotone comprato su eBay per un dollaro e cinque centesimi”.
Gli Alt-J sono ironici e perfettamente allineati alla contemporaneità e, dopo la sorpresa di This Is All Yours, con questo terzo album dimostrano di essere nell’elenco dei migliori autori della colonna sonora di questo nostro tempo così in bilico tra ricordo del passato e immaginazione del futuro. E con la cover smaterializzata di un pezzo antico e solenne come The House of the Rising Sun degli Animals, gli Alt-J fanno capire di avere coraggio e dimostrano che esiste una poesia anche nelle sequenze di suoni che in questa epoca chiamiamo canzoni.