Questa è una storia composta da due storielle distinte. Per raccontartela, ho bisogno di parlarti prima di un arzillo cinquantacinquenne e poi di un software maledetto. Sul primo ci sarebbe molto da dire, ma vedrò di evitarti le citazioni colte da Wikipedia. Lui si chiama Jeff Minter, è nato a Reading e negli anni ’80 diventò una leggenda tra gli sviluppatori di videogame. Jeff aveva la capacità di sfruttare ogni macchina su cui lavorava, facendola andare ben oltre le sue capacità, spesso sfruttando errori di progettazione (i bug) per rendere ancora più fluida la grafica dei suoi titoli. Titoli che erano “particolari”, per usare un eufemismo: in Attack of the Mutant Camels (1983), per dirne uno, si dovevano far fuori frotte di cammelli provenienti dallo spazio profondo.
Caratteristica peculiare dei suoi titoli è la presenza di colori acidi, musiche acide, e probabilmente un po’ di sana propensione agli acidi per giocarli degnamente. A proposito: parallelamente allo sviluppo di videogame, il buon Jeff si è dedicato anche alla realizzazione di sistemi d’illuminazione psichedelica: software, in buona sostanza, che sparano luci colorate e stroboscopiche pronte a immergere lo spettatore in sensazioni “acide”, se mi passi il termine. Jeff, attualmente, vive e lavora in una sperduta località del Galles, assieme al suo amico Ivan (italiano) e quattro pecore, due lama, due capre e un cane. Sono andato a trovarli qualche anno fa, dopo in viaggio di sei ore di auto da Londra, ed è stata una delle esperienze più intense e originali della mia vita, ma magari questa la raccontiamo un’altra volta.
La seconda storiella riguarda, invece, Polybius. Si tratta di un software che molti reputano non essere mai esistito, e quindi di una bufala, ma c’è chi giura di averlo provato in quel lontano 1981, anno della sua uscita. Si trattava di un coin-op (i videogame da bar), distribuito in alcune sale giochi di Portland, che metteva il giocatore di fronte a forme geometriche, luci e suoni capace di scatenare il cosiddetto “behavioral addiction”. Dipendenza, alla pari della droga, ma non solo. Chi raccontava di averci giocato, aggiungeva di aver sofferto di allucinazioni, amnesia e insonnia, e che dei curiosi agenti governativi erano soliti giungere ai cabinati di Polybius al fine di estrarvi chissà quali dati. Non si è mai saputo quanto fosse vera la storia: appena dopo un mese dalla distribuzione, presunta o reale che fosse stata, Polybius sparì da tutte le sale giochi dove era stato avvistato.
Riassumendo: Jeff, il geniaccio anni ’80 e hippie da una parte, e Polybius, il gioco allucinogeno anni ’80 dall’altra. Come potevano non incontrarsi, prima o poi? Forte del rinnovato interesse del mercato nei confronti della realtà virtuale, Jeff, capo supremo di Llamasoft (del resto sono lui e Ivan…), ha deciso di creare, o riproporre per chi credesse alla urban legend, Polybius.
E, per la miseria, Polybius è qui. Davanti a me.
Come detto è un titolo per il caschetto di realtà virtuale di PlayStation 4 ed è pure un titolo di Jeff Minter. Un modo elegante per sottolineare che, chi gioca, si ritrova davanti a corse frenetiche per livelli geometrici in cui spostarsi a destra o sinistra, e sparare ai nemici che si fanno sotto. Nemici dalle forme variegate, spesso assurde, che insieme alla scelta dei colori e delle strutture dei cunicoli da percorrere contribuiscono a rapire e al tempo stesso disorientare il giocatore. Ok, all’inizio ci capirai davvero poco e solo dopo parecchi tentativi capirai che Polybius non si doma. Al più, il giocatore deve imparare a farsi trasportare dal flusso di suoni e colori, a dir poco psichedelici, che Jeff e Ivan hanno incanalato nel loro pazzo, pazzo, mondo virtuale. Un gioco come Polybius non si gioca né, forse, si vince, semmai si vive. Ci si tuffa dentro lasciandosi portare dove vuole la corrente e, per qualcuno, potrebbe non essere un viaggio facile. Il mondo virtuale di Llamasoft somiglia più a un trip a tappe obbligate che ti scaraventa nella mente del geniaccio britannico, senza nemmeno darti la possibilità di capire se ti piace davvero.
E alla fine?
Alla fine niente malesseri, niente nausea e niente amnesie. Ti togli il visore e rimani a fissare la parete con un “wow” che è per metà sollievo e per metà soddisfazione. Ma ti dirò, la voglia di arrivare fino in fondo c’è, giusto per scoprire che il nuovo, vero, Polybius non ci rende pazzi ma ci fa scoprire cos’è la pazzia di un programmatore d’altri tempi.