L’edizione 2017 del Primavera Sound si è chiusa ieri (almeno per quanto riguarda i nomi più blasonati) con una serata indimenticabile. È iniziata un pochino prima del solito, alle 18:30, con il live di uno dei progetti più interessanti della musica contemporanea: Junun. Un compositore israeliano che si porta a spasso per il mondo nove musicisti del Rajasthan, con tanto di baffoni e turbanti. Nella formazione di solito c’è anche Jonny Greenwood (infatti il collettivo aprirà proprio la band di Yorke anche nelle date italiane), ma attualmente si trovava impicciato proprio nel tour coi Radiohead. Poco male perché il cardine non è lui ma questa allegra cricca di indiani che con strumenti tradizionali segue un po’ ovunque Shye Ben Tzur, l’israeliano, fra basi elettroniche e bassi dub.
Gli organizzatori se la sono studiata proprio bene, mettendo un altro live non propriamente festivaliero nelle ore di luce. Va da sé che assistere agli swing, blues e country di Van Morrison vale ancora di più se fatto a due metri da una spiaggia al tramonto, mentre il cielo tinge di rosso una nottata che, col senno di poi, non è stata granché per le migliaia di tifosi juventini a pochi kilometri dal Forum. Fortuna che con la musica non si rimane mai delusi e, anzi, semmai sorpresi. Per esempio di vedere come le leggi del tempo e dell’invecchiamento affliggano tutti tranne Grace Jones. Gli anni Ottanta fatti a persona salgono sul palco con il corpo tutto dipinto di segni tribali, seno scoperto, voce freschissima, plasticità di una trentenne, battuta sempre pronta («Wow, troppa ganja, mi servirebbe una Coca Cola!») e gusto insuperabile nello scegliere abiti e tracklist: età? Sessantanove.
Ma la programmazione è tiranna e purtroppo dobbiamo lasciare Grace prima della fine del suo live per non perderci quello di uno che è invece all’inizio della carriera. King Krule è cresciuto ormai dai tempi del ragazzino roscio e spelacchiato di Easy Easy. Ora sul palco è a suo agio, scherza e ci dà dentro strimpellando a velocità di curvatura la sua Fender blu elettrico. Si fa anche accompagnare da un sax baritono, una specie di omaggio più o meno celato ai Morphine. I pezzi scorrono piacevoli e senza tempi morti come fra un cambio d’abito e l’altro come con la Jones—rimane comunque uno dei più belli del festival, e se David Bowie fosse nato donna si sarebbe chiamato Grace Jones.
Poco prima della band per cui tre quarti delle persone sono lì, cioè gli Arcade Fire, un altro complessino tutto synth vintage e vestitini carini regala bei momenti al pubblico: i Metronomy. Una ragazza italiana di fianco a noi a metà concerto degli inglesi esclama stupite: «Ma io mica me li immaginavo così energici!» È vero, prendendo come metro di giudizio i dischi, potresti pensare che dal vivo le batterie e la voce di Joseph Mount siano ancora più anemici, ma è un errore. I ritmi sono più veloci, gli arrangiamenti più ballabili: con il risultato che i pezzi sono ancora più belli, tolto lo stile che ha la band in sé.
Non si può dire di amare gli Arcade Fire senza aver mai partecipato a uno dei loro show, senza aver trasformato neanche una volta il proprio vicino di concerto nel vostro migliore amico, per urlare insieme a sgolarsi “Every time you close your eyes, lies! Lies!”. Senza sentirsi le percussioni dentro, senza saltare, ululare con loro, senza precipitare ad Haiti, senza riuscire a cogliere (dal megaschermo) la disperazione negli occhi di Win Butler, senza vedere volteggiare una Regine raggiante, senza vedere il riflesso di quegli specchi e del nuovo singolo lanciato pochi giorni fa, senza quella spruzzata di disco music.
Ebbene, ieri notte a sentire i nuovi Arcade Fire di Everything Now c’erano milioni persone in più rispetto a quella sorta di flash mob musicale improvvisato durante i primi giorni di Primavera Sound. Quello di ieri è stato un gran finale con i fiocchi. E i lustrini. Ma il singolo che anticipa il nuovo disco in uscita, questa volta per Columbia, il 28 luglio prossimo ha solo iniziato ad aprire lo stomaco ai fan accorsi da tutta Europa per questo primo e grande concerto di una nuova era. Un’era in grado di unire la band di Funeral con quella di Reflektor, pare.
Durante gli ultimi pezzi, poco prima del diverso scenario proposto per Windowsill in chiusura, l’app del festival annuncia un ospite speciale nell’arena Rayban e qualcuno inizia a spostarsi per poi trovarsi le Haim sul palco calcato nel pomeriggio della stessa giornata da Junun (vedi sopra) e Angel Olsen, ex skater impazzita per il country, anche lei incredibile. Come del resto il festival più fico d’Europa.