Al Shea Park il buio calò sul finire del sesto inning, mentre Mets e Cubs duellavano per chi facesse meno schifo nella National League East. Nessuno capì cosa stava succedendo, né poteva immaginare che lo attendeva il più surreale viaggio di ritorno dal ballpark della sua vita. Non solo il parco di Flushing Meadows, nel mezzo del Queens, era rimasto senza luce: la stessa sorte accomunava ogni finestra e vetrina dell’intera città di New York. Erano le 21 e 34 del 13 luglio 1977, il grande blackout era cominciato.
Non era la prima volta che la metropoli piombava nell’ombra. Era già successo il 9 novembre del 1965. Allora più di 30 milioni di persone tra l’Ontario e New Jersey, lungo una superficie di 207 mila chilometri quadrati, si ritrovarono senza elettricità per 13 ore. Questa volta il blackout era circoscritto alla sola New York, che avrebbe rivisto la luce 25 ore dopo. L’oscurità era stata causata da una serie di fulmini, che si era abbattuta su alcune sottostazioni elettriche e linee ad alta tensione. Erano gestite da Con Edison, la principale compagnia elettrica del Paese, che illuminava tutta la Mela. Una dopo l’altra le linee crollarono, finché l’intero sistema collassò. Solo alcuni isolati nel sud del Queens e lungo i Rockaways, serviti da un’altra compagnia, continuarono a vederci.
Ciò che successe dopo non sarà mai scordato dalla città, terrorizzata in quei giorni dallo spettro di David Berkowitz, il serial killer soprannominato Figlio di Sam. La metropolitana smise di funzionare e i network televisivi di trasmettere, il giorno dopo Wall Street non riaprì, dimostrando che il mondo andava avanti comunque. L’attività si paralizzò a Manhattan e a Brooklyn, come ad Harlem: i quartieri parevano il set dei Guerrieri della notte. Complice il buio, furti e violenza scoppiarono ovunque nella “notte dei saccheggiatori”. Il Time, che a quell’evento dedicò la cover del 25 luglio di quell’anno, ricostruì gli episodi successi in giro per la città.
In un negozio di Brooklyn alcuni ragazzi sfondarono una vetrina, rubarono i vestiti a dei manichini e gli spezzarono braccia e gambe. A Bedford-Stuyvesant la polizia fermò un uomo che aveva arraffato 300 tappi per il lavello. In strada comparvero bande di uomini, donne e bambini pronti a accaparrarsi qualcosa e a distruggere quello che non erano in grado di portare via. All’inizio puntarono i negozi di vestiti, di elettronica, gioielli e liquori, poi, quando tutti furono ripuliti, sotto con cibo, mobili e farmacie. Frank Ross, agente di Brooklyn, raccontò al Time: «Era come se una febbre li avesse colti». Secondo il New York Times alle 10 e 39 del 14 luglio, quando le luci riapparvero, 1600 negozi erano stati saccheggiati e mille incendi appiccati in giro per la città. Gli arresti furono 4mila, le autorità dovettero riaprire le Tombs, prigioni di Manhattan chiuse tre anni prima perché troppo vecchie e disumane. Come racconta il New York Post, il 17enne italo-americano Dominic Ciscone fu ucciso da un colpo di pistola in circostanze misteriose per le strade di Brooklyn.
Il sindaco di New York Abraham Beame, 71 anni, dichiarò lo stato di emergenza e inviò la polizia in periferia. Pare che al momento dell’oblio fosse alla Co-op City, la più grande cooperativa edile al mondo, situata nel Bronx, alle prese con una campagna elettorale per le primarie democratiche che stentava a decollare, e, poco consapevole di quanto stava accadendo, si lasciò andare a una battuta: “Ecco cosa succede a non pagare le bollette”.
Il ghetto nero e ispanico a nord di Manhattan fu la zona in cui avvennero i maggiori disordini. Negli anni ’70 il quartiere era alle prese con povertà e disoccupazione alle stelle, mentre qua e là i palazzi andavano in fiamme per permettere ai proprietari di intascare i soldi dell’assicurazione, visto che di vendere non c’era verso. Tra il 1970 e il 1980, secondo il New York Times, il 40% delle case del South Bronx fu bruciata o abbandonata e la popolazione si contrasse del 40%, fino ad appena 300 mila abitanti. Nel Bronx la razzia raggiunse livelli di eccellenza. In uno showroom della Pontiac furono rubate 50 auto del valore di 250 mila dollari, collegando i fili e sgommando via. In un Fedco aperto da pochi giorni non rimase più nemmeno un prodotto sugli scaffali. Ma non per tutti quella fu una notte di paura e abiezione.
La sera del 13 luglio Grandmaster Caz e il suo socio Disco Wiz, due giovani dj, stavano facendo girare dei dischi in un parco del Bronx, dove erano nati e avevano sempre vissuto. «Il disco iniziò a girare sempre più piano, finché si fermò. Ci guardammo attorno e, in un attimo, vedemmo tutte le luci spente. Oh cazzo, pensammo, è colpa nostra, visto che stavamo rubando la corrente» racconta Wiz. «Allora realizzammo. Ci guardammo in faccia e gridammo: Blackout! Pochi secondi dopo sentimmo le prime vetrine in frantumi. Delle persone si avvicinarono a noi e tirammo fuori le pistole: giù le mani dal mixer, andate a rubare da un’altra parte. Il Bronx si era trasformato in una grande area free shopping: vidi famiglie passeggiare con televisori e casseforti sulle spalle» aggiunge Caz, che sarebbe diventato uno dei nomi di riferimento del rap primordiale. I due raccontano la loro esperienza in un documentario, dove, per la prima volta, si affaccia una teoria: in quella notte di luglio a New York nasceva l’hip hop. «Prima di quella notte conoscevo cinque crew di dj, dopo ce n’era una in ciascun isolato. Ogni negozio di elettronica fu preso d’assalto. Dal blackout partì una rivoluzione» dice Disco Wiz.
Prima di quella notte conoscevo cinque crew di dj, dopo ce n’era una in ciascun isolato. Dal blackout partì una rivoluzione
Secondo la vulgata l’hip hop vede in realtà la luce nella seconda metà del 1973. In quella data, vidimata dalla Zulu Nation, Dj Kool Herc, un immigrato giamaicano che suonava nei block party del quartiere, aveva già messo a punto il nuovo genere, mixando, per la gioia dei suoi amici, vari suoni e tecniche, grazie all’utilizzo del doppio giradischi. Il termine Hip Hop sarebbe entrato in vigore solo 5 anni dopo: i credits in questo caso spettano a Keith Cowboy, un mc della truppa di Grandmaster Flash. Ma in quella fase di gestazione il luglio del 1977 assume un ruolo speciale. «Merda, quella notte fu incredibile. Potevi vedere le persone per strada con un materasso sopra la testa; alcuni amici si presentarono alla mia casa in Fox Street con un nuovo impianto stereo e io mi assicurai che non fosse di nessuno del nostro giro. Mi dissero: con questo affare nelle strade suonerai dannatamente bene» ha raccontato al Guardian qualche tempo fa Flash, il nome più importante dell’hip hop delle origini.
Il grande blackout è stato di recente portato sugli schermi dalla serie di Netflix The Get Down, creata da Baz Luhrmann e Stephen Adly Guirgis con la collaborazione dello stesso Grandmaster. Sullo schermo, tra i “looters” che approfittano del buio per appropriarsi di nuove casse e giradischi ci sono anche Ezekiel, Shaolin e gli altri Get Down Brothers, che con quel materiale possono inseguire il loro sogno di diventare una vera crew e battagliare con le basi per le strade del Bronx.
«Ho visto la serie, ho alcuni amici che ci lavorano. L’ho trovata molto divertente, ma bisogna ricordare che si tratta di una fiction che prende spunto da musical e cartoni animati. Non è possibile trattarla come un documentario, non ha la pretesa di essere realistica» ci racconta Joe Schloss, docente di cultura afroamericana al Baruch College di New York. Schloss studia da anni l’hip hop, cui ha dedicato il libro Foundation. Per lui la nascita del genere è indissolubilmente legata al Bronx di quegli anni, alla vitalità che covava sotto una coltre di emarginazione. «Negli anni ’70 il quartiere, e New York più in generale, affrontava una tremenda crisi economica e sociale. Pareva sprofondato in una spirale negativa: chi ne aveva la possibilità se ne era già andato, chi rimaneva era senza soldi e frustrato. Nelle altre zone della città la gente iniziò a vedere il Bronx come un posto di poveri e incazzati e gli investimenti smisero del tutto di fluire in quella direzione. Così ancora più abitanti abbandonarono l’area e la gente divenne ancora più povera e incazzata» dice Schloss.
Lo intuì Ed Koch, che nel luglio del 1977 sfidava Beame nella corsa alla candidatura democratica a sindaco di New York. L’avvocato nativo del Bronx, personaggio centrale di Get Down, vinse e fu eletto per tre mandati. La sua risposta all’emergenza non fu gentile: grazie a un prestito federale, aumentò la presenza di agenti nel quartiere per reprimere le gang criminali che controllavano il territorio, dai Savage Skulls ai Reapers, i Deadly Bachelors oppure i Tomahawks. La sua teoria delle finestre rotte, secondo cui un vetro frantumato incoraggia nuovi crimini, divenne un mantra per tutti gli anni ’80. Alle urne pagò, ma così facendo separò ancora di più il Bronx dal resto della metropoli.
Il blackout contribuì ancora di più a creare il senso di alterità del quartiere. L’hip-hop ridiede speranza ai cittadini del Bronx
«Quell’ambiente portò molte persone a sentirsi senza speranze. Il blackout contribuì ancora di più a creare il senso di alterità del quartiere, il Noi contro di Loro tipico del Bronx. A fare detonare quella notte fuori dai confini fu proprio la sensazione che a nessuno interessasse ciò che accadeva da queste parti, quindi toccava arrangiarsi. L’hip hop, che si fonda su una mentalità di questo tipo, fu il modo che i cittadini crearono per ridarsi una aspettativa. Ma non bisogna dimenticare che il Bronx aveva radici e tradizioni profonde, che hanno influenzato la cultura sul nascere. Non era una terra perduta: guardate il film From Mambo to Hip-Hop per farvi un’idea» racconta Joe Schloss.
«Oggi come allora nel quartiere si possono trovare persone di ogni tipo. Negli anni ’50 c’erano italiani della working-class, irlandesi, ebrei-americani; negli anni successivi, con la crisi economica, molti se ne andarono e rimasero soprattutto neri e latini, cui si deve la nascita dell’hip hop. In questa cultura le interazioni tra le diverse comunità furono fondamentali». L’hip hop delle origini era una questione di riscatto e identità, un’anima che gli artisti del genere hanno provato a mantenere intatta fino a oggi. Non era ancora, nel Bronx di fine anni ’70, qualcosa di strettamente politico. «Il centro dell’attivismo era a Harlem, al di là del fiume» prosegue il professore e saggista.
Grazie al down della Con Edison, mai odiata come allora da una larga parte dei cittadini, da quella notte le luci della disco newyorkese, il genere che regnava a quel tempo, divennero un po’ meno scintillanti. Donna Summer, che aveva appena pubblicato il suo quinto album I Remember Yesterday, stava per conoscere i suoi nuovi agguerriti concorrenti. Anche questa dicotomia strade vs club in Get Down è rappresentata molto bene. «Non bisogna mai dimenticare che l’hip hop fu inventato da teenagers, che erano troppo giovani per entrare nei locali e ordinare alcolici. L’intuizione per cui si poteva ballare sui dischi e non per forza davanti a una live band, era nata a New York: l’hip hop degli anni ’70 si inserì trionfalmente in quella moda e ne spinse più in là gli orizzonti» conclude Joe Schloss.