La sua musica è un mix di sperimentazione elettronica e fiddle africano così fico che Peanut Butter Wolf, il proprietario della Stones Throw Records di Los Angeles, non ha esitato nemmeno un secondo nel proporle di pubblicare il suo secondo Ep, Sudan Archives, già in streaming su bandcamp e in uscita a settembre su vinile. Nata e cresciuta a Cincinnati, Ohio, la ventitreenne Brittney Parks – che a 17 anni è diventata Sudan dopo aver deciso che il suo vero nome le faceva schifo – ha imparato il violino da autodidatta, suonando a orecchio col coro della chiesa del padre. Ma sono state le app di Garage Band e iMPC a farla entrare nell’universo della produzione digitale. Potremmo paragonarla ad Arthur Russel – e Peanut Butter è dello stesso parere – ma lei non ha ancora studiato quanto il violoncellista della disco music più fica del mondo, la sua è un’arte che si è liberata dai tecnicismi ed è tornata all’impulso puro di chi la musica la sente dentro (ci teniamo a sottolineare che Arthur Russel da queste parte piace assai, ma questa giovane ragazza ha creato qualcosa che è riuscita a stupire nonostante le nostre orecchie siano ormai abituate a i suoni che arrivano dall’Africa). “Non voglio diventare una cantante pop, voglio essere qualcos’altro”, aveva detto alla sorella quando da teenager si era ritrovata in uno studio di registrazione per produrre la musica del loro duo pop. Il primo Ep, Golden City, l’aveva registrato nel sottoscala dei suoi genitori con un iPad. Ora passa le sue giornate nel nuovo studio della Stones Throw, con svariate keyboard e synth, dove ha prodotto il suo primo album completo che dovrebbe uscire i primi mesi del prossimo anno.
Quando la raggiungiamo telefonicamente a Los Angeles sono le 10 del mattino. Ieri sera ha festeggiato il lancio dell’Ep e ha dormito poco perché ha dovuto cedere il suo letto ai genitori. Ma non sembra stanca, anzi, la sua voce ha un’energia coinvolgente.
Com’è andata ieri sera?
Ci siamo divertiti molto, c’era tanta gente e mio padre ha pure cantato e suonato la tastiera.
È un musicista?
Sembrerebbe, in realtà no (ride, ndr). È un pastore della Chiesa di Dio.
Quindi sei cresciuta in chiesa come le Pointer Sisters?
Si può dire di sì, sono cresciuta in una chiesa dove c’erano sempre dei musicisti. Di tutte le scuole che ho frequentato, solo nella chiesa di mio padre ho trovato un’orchestra, o meglio, un coro con cui poter interagire. Suonavo seguendo il mio orecchio, il coro sceglieva delle canzoni che avevano partiture con violini e io cercavo di seguire le loro intonazioni. Ma le mie radici non sono gospel, mia madre e mio padre sono di Detroit, quindi mi sento più funk, ma un funk rivisitato in chiave hip hop.
Ecco spiegata la cover di King Kunta di Kendrick Lamar, la tua Queen Kunta.
La prima volta che l’ho sentita mi ha impressionata molto, credo ci sia un messaggio davvero forte e profondo in quella canzone che volevo fare mio. Il modo in cui Kendrick si dà forza chiamandosi King Kunta mi affascina. Kunta Kinte era uno schiavo, uno di quelli che però si è ribellato. Kendrick ha giocato con il suo nome, trasformandolo in King Kunta, e nella mia testa ho pensato: ok, quindi posso essere anche io una Queen Kunta (ride, ndr)!
Hai mai incontrato Lamar?
No, purtroppo.
Con chi vorresti collaborare?
Onestamente, ho fatto solo la cover di Kendrick Lamar quindi direi lui, sarebbe fantastico.
Qual è stato il primo strumento che hai suonato?
In quarta elementare un gruppo di musicisti venne a scuola con l’intenzione di convincerci a suonare il violino. Mia madre me ne comprò uno ed è così che ho iniziato. Ma sono state le app del mio iPhone a spingermi verso la produzione. Quando sono passata all’iPad ho iniziato a creare alcune delle tracce che sono sull’ep. Poi mi sono trasferita a Los Angeles per studiare musica e con i soldi che ero riuscita a risparmiare ho comprato una Roland SP-404, una drum machine, un computer e una tastiera. E’ così che ho imparato a produrre.
Passavo molto tempo da sola, saltavo di lavoro in lavoro e non avevo tempo di uscire e ascoltare quello che stavano facendo gli altri musicisti, né di conoscere la scena elettronica locale come avrei voluto. La mia alienazione mi rendeva triste ma forse è questo il motivo per cui la mia musica suona così, perché non ho avuto il tempo di emulare nessuno, quello che facevo veniva direttamente dal mio cuore. Ho sempre cercato di sperimentare. Il singolo Come Meh Way mi ha spinto a voler mantenere quella stessa linea.
Dai tuoi live sembra quasi che il tuo prossimo passo sia verso uno show multidisciplinare, con visual e performance art.
Sì, assolutamente. Durante il release party dell’ep un professore universitario mi ha fatto notare che i miei live protendono verso la performance art e visual. Sinceramente non avevo mai pensato a questo aspetto ma, a quanto pare, c’è. Mi piacerebbe incorporare più discipline, forse quando sarò più famosa mi farò aiutare da qualcuno più esperto.
Non so perché ho pensato a Flying Lotus. Hai visto Kuso, il suo primo lungometraggio?
Non ancora ma devo assolutamente vederlo! Ho sentito che le musiche sono fantastiche, sembra che ci sia il giusto incastro tra musica e visual ed è quello che vorrei diventasse un giorno la mia musica: un’esperienza di suoni, visual e arte.
Perché ti sei avvicinata al Sudan?
Mia madre mi ha sempre considerata la sua “hippy child”, con le mie collane africane sempre al collo. Fu lei a suggerirmi di chiamarmi Sudan e a darmi lo slancio per approfondire le mie radici. Il mio sangue è per metà americano e africano, da quando mi chiamo Sudan ho iniziato a fare ricerche sulla musica sudanese e africana e ho capito che il modo in cui suonavo il violino non era tanto diverso dalla fiddle music dell’Africa occidentale. Alle elementari il nostro insegnate di violino suonava il fiddle irlandese e il suo background era blues e folk, quindi il mio approccio, seppur basilare, veniva da lui.
Qual è la musica africana più strana che conosci?
Juldeh Camara è uno dei musicisti che mi ha più stravolto. Il folk dell’Africa occidentale, coi suoi violini a una corda, è diverso da quello che conosciamo in America perché è più istintivo, più libero.
Hai mai pensato di suonare qualche altro strumento tradizionale africano?
Sì, ho una specie di baby kora con cui faccio un po’ di casino. Quando sono andata in Africa lo scorso dicembre (il mio primo viaggio intercontinentale!) ho comprato un violino africano come quello che suona Juldeh Camara. Ero partita per seguire il progetto North Star Beat in Ghana dopo aver fatto volontariato per un’organizzazione no profit a Los Angeles che aiuta le famiglie disagiate africane. L’anno precedente avevamo raccolto 15 mila dollari con cui avevamo comprato il loro primo scuola bus, ma volevo fare qualcosa di più creativo, donandogli dei computer e delle drum machine. Il North Star Beat è nato con la mia proposta di un workshop di tre giorni in beatmaking elettronico che è stato sostanzialmente questo: io che collaboro con studenti del Ghana, li registro, faccio dei cd e li vendo. I soldi che abbiamo ricavato sono andati alla scuola e ai ragazzi.
Userai il materiale registrato in Ghana per il tuo nuovo album?
C’era una ragazza che reppava che era davvero brava e vorrei ne facesse parte. La maggior parte dei bambini aveva un ritmo innato, naturale, molti suonano le percussioni africane quindi erano già molto bravi col ritmo. Quando gli ho detto che le loro mani erano le loro bacchette hanno immediatamente capito come funzionava una vera batteria, suonando dei ritmi pazzeschi su cui altri ragazzi facevano rap.