Fuori dalla Masseria Papaperta c’è un cartello che già di suo suggerisce un’anomalia. Le cose possono non essere quello che sembrano. Tanto che, sotto al segnale di pericolo attraversamento cervi che sta a bordo strada svetta un “cinghiali” scritto gigante. Chi entra e guarda il cartello si fa due risate sciocche, due foto, ma allo stesso modo appena entrati nella Masseria ci si trova in una situazione simile. Fra i muretti di pietra della tenuta, appoggiata su una delle mille colline baresi, non c’è neanche l’ombra di massari o animali da cortile. Solo un palco, Nicolas Jaar, Lorenzo Senni e 4000 persone che hanno preso aerei, taxi e a questo punto cinghiali con le corna per non perdersi la serata inaugurale del VIVA! International Music Festival.
Raccogliendo pareri informali qua e là, viene fuori che nemmeno Club To Club e Turné, gli organizzatori sostenuti da Audi Italia, si aspettavano un’affluenza simile. D’accordo: il nome di Jaar fa sempre gola a molti, in più siamo a Ferragosto ma, per essere un evento alla prima edizione—in una location semisconosciuta e sperduta nella Valle d’Itria dove il concetto di taxi sembra non aver attecchito granché—, bisogna dire che la soddisfazione nell’aria si respira a pieni polmoni.
Quindi, nel momento in cui Lorenzo Senni (o “the Raven”, come lo chiama Jaar) comincia a sparare dai line array gli arpeggioni della sua meravigliosa trance che non si risolve mai, nel prato sotto al palco si sono già affollate migliaia di persone. Sono giovani, presi bene, agitati ma non scalmanati. Quel tipo di clubber che, finito il concerto, sta un po’ lì a schiamazzare ma poi educatamente se ne va via, senza portarsi a casa alberi e tensostrutture. Il pubblico di Club To Club, via. In più, se ne va via soddisfatto del live di Nico, che sceglie di partire davvero piano—all’inizio, calano sulla Masseria droni e percussioni rarefatte—e poi si condensa in sezioni ora jazzistiche, ora vocali, ora cumbieggianti. Solito set incredibile di Nicolas Jaar, anche se è già più insolito trovare un artista che sfori di una ventina di minuti il set time. Così, giusto perché si sta divertendo e come nessuno dei presenti non ha fretta di tornare a casa. Rispetto.
L’idea che sta dietro a VIVA! comunque è quella di dispiegare in vari spot attorno a Locorotondo (base operativa) una serie di eventi satellite durante i giorni che anticipano il weekend, dopodiché concentrare la potenza di fuoco su tre giorni—venerdì 18, sabato 19 e domenica 20—di live gratuiti in un’arena gigantesca se rapportata agli eventi lì vicino.
Per cui, dopo una Boiler Room il mercoledì (menzione speciale per John Talabot e Jolly Mare, che ha colto l’occasione per suonare nuove perle) e una festa in spiaggia il giorno successivo insieme a Stump Valley, Rollover e Carlo “126” Pastore, finalmente si è potuta testare la vera efficacia dell’esperimento VIVA! Festival. In più, non trattandosi del vero Club To Club, ci si è potuti sbizzarrire molto di più sulla proposta artistica, spaziando dal rap alla techno, dal revival disco all’avant-pop.
C’era un po’ il timore che i due ospiti principali di venerdì potessero “sovrapporsi” stilisticamente, essendo entrambi adepti del funk e della italo disco 80’s. Fortuna che così non è stato, perché Jolly Mare, potendo contare sulla band, si è diretto verso zone più morbide e downtempo, per poi lasciare a Todd Terje il compito di chiudere con un DJ set diviso in quarti di cassa che si è spinto fino a bussare alla acid house. Voto alto. Così come voto alto per DJ Shadow, Kelly Lee Owens e soprattutto lo staff del festival nella serata conclusiva di domenica.
Un minacciosissimo temporale rischiava infatti di mandare all’aria l’ultima data e pure i nove minuti di videomapping sulla facciata più in vista di Locorotondo, messi in piedi col sudore della fronte dagli studenti dello IED Barcellona. Una buona dose di coraggio e di organizzazione e si è potuto concludere in bellezza i sei giorni di festival, anche se con qualche ora di ritardo.
«Com’è che ti chiami su Instagram?» chiede Ghali a una ragazza nelle prime file. Il rapper di Baggio ha appena iniziato il suo set con qualche pezzo, ma si è già interrotto per fare una delle sue solite gag. Come appunto prendere il cellulare e cominciare ad aggiungere in diretta gente del pubblico. Inutile dire che la serata di sabato, la penultima, è stata la più attesa, oltre che la più frequentata. Migliaia di ragazzini, alcuni con famiglia, cantano, ballano e con loro persino Madlib che salirà sul palco da lì a poco—per inciso, DJ set memorabile, con lui al microfono che commenta un repertorio di pezzi che va dai classici di Quasimoto alle fucilate old school tipo Shook Ones dei Mobb Deep.
Unico neo: subito dopo Ora D’aria, Ghali pesta un bel merdone impelagandosi in un discorso che parte dalla strofa “Sapevi che l’AIDS si cura e il cancro pure?/ Solo che noi siamo troppo poveri per quelle cure” e finisce nel cospirazionismo più bieco. Qualcuno fischia, parte qualche insulto ma l’impasse è ben presto dimenticato.
Alla fine della serata rimane il dato di fatto che, con l’odio che scorre di questi tempi (solo due giorni prima un attentato a Barcellona ha macchiato di sangue la Rambla) un rapper di origini arabe riesce a far cantare a squarciagola “Baba manchofoch Wily Wily, Nari Nari” a diecimila italiani. Cose che vorremmo dare per scontate, ma che scontate non sono.