Quincy Jones si era già costruito una carriera eccezionale prima di incontrare Michael Jackson (che avrebbe compiuto 59 anni il 30 agosto). Era stato in tour con Dizzy Gillespie, arrangiato Fly Me to the Moon di Sinatra e Genius + Soul = Jazz di Ray Charles, aveva avuto le sue band, firmato colonne sonore per film e TV show e dimostrato di saper produrre benissimo la musica pop con album come Whole Lotta Shakin’ Goin’ On di Big Maybelle e una sequenza di singoli da Top Five di Lesley Gore, tra il 1963 e il 1964.
Jones portò tutta la sua esperienza al servizio del suo lavoro con Jackson, e la coppia diventò una delle più importanti della storia del pop. Tra il 1979 e il 1987, Jackson pubblicò Off the Wall, Thriller e Bad, una tripletta di album prodotti da Jones, che vendettero milioni e milioni di copie e sfornarono decine di hit. In onore del 30esimo anniversario di Bad, Jones ha parlato con Rolling Stone del suo lavoro sullo storico LP.
Tu e Michael vi eravate confrontati su Bad prima di iniziare a lavorare insieme?
Non funziona così. Devi andare canzone per canzone. Le canzoni sono la vera forza. Sono loro a farti vincere. Da quello che ho imparato, la melodia è la voce di Dio. Devi cercare quella. Non ho mai fatto dischi nella mia vita per soldi o per gloria. Così avrai successo. Perché Dio se ne va se tu punti ai soldi. Devi vivere di intuizione. Se c’è qualcosa che ho imparato a 84 anni, è che dobbiamo fare davvero poco perché le cose succedano. È un intervento divino.
La gente ha sempre la propria opinione su se stessi, quando fanno un disco. Ma non funziona così amico. Siamo noi, il team, sempre. Più sei coinvolto nel team, meglio esce il progetto. È un processo fantastico. Lo faccio da molto tempo. Ma allora, quando stavo lavorando con Lesley Gore negli anni ’60, le tracce che amavo di meno erano al numero due, al numero sei e al numero undici della classifica. E non sentivo nessuno dire che ero riuscito a fare un numero sei o numero undici. E quando mi dicevano che ero al numero due, volevo essere il numero uno.
Come metti insieme una squadra?
Avevo già una squadra di superstar prima di lavorare con Michael. Jerry Hey, Rod Temperton, Bruce Swedien, Greg Phillinganes – c’erano già prima di Michael. Sono i migliori del mondo.
Non ho mai tirato a caso. Una delle responsabilità di un producer è sapere cos’è il meglio, sempre. Il lavoro del producer è difficile, amico. Davvero. Quando tutta la tua squadra lavora nella stessa direzione allora è quando riesci a fare dei buoni dischi.
E bisogna essere fedeli alle canzoni. Tutti i miei musicisti ragionano così. Anche se non è la loro canzone, hanno qualcosa da aggiungere.
Come capisci qual è la cosa migliore per un team o per un artista?
Grazie alla mia esperienza. Ho iniziato con le big band, con i quartetti gospel, con il bepop. Quello era un movimento rivoluzionario. Sono nella scena da 70 anni. Tanto tempo. Devi sperare di poter fare tutti gli errori necessari a imparare qualcosa. E io ho fatto tutti gli errori. Tutti. Ma quando ho conosciuto Michael, li avevo già commessi tutti. Avevo 50 anni ai tempi di Thriller. Con Sinatra avevo 29 anni.
Come hai scelto le canzoni per Bad?
Ti racconto come andò. Per Off the Wall, Michael scrisse Don’t Stop ‘Til You Get Enough, scrisse Working Day and Night, e gli chiesi di scrivere una parte per Get on the Floor con Louis Johnson – perché era quello che spaccava dei Brothers Johnson. Su Thriller scrisse Beat It, The Girl Is Mine, Billie Jean e Wanna Be Startin’ Somethin.
Stava iniziando la parte incasinata della sua vita, quindi pensai che fosse arrivato il momento per lui di fare un album molto onesto, scrivendo tutti i pezzi. Suggerii di farlo con Bad. Scrisse tutte le canzoni tranne due. Sbagliai a fargli fare il duetto con Stevie (Just Good Friends, ndt). Non funzionò. Ma Man in the Mirror funzionò alla grande. Siedah (Garrett, ndr) era una dei miei 13 autori. Gli chiesi di scrivere un pezzo internazionale, un inno per farti sentire meglio. E saltò fuori la canzone migliore dell’album. E tutte furono ottime, c’erano cinque singoli al numero uno.
Come avete sviluppato le demo di Jackson?
Devi avere la costruzione finale in mente. Non importa come lo fai, ma devi averla in testa. Qualcuno deve farlo. La nostra combinazione era perfetta. Io non so ballare – lo facevo da piccolo -, non sono un ballerino né un cantante né niente di simile. Quella era la parte geniale di Michael. Era molto preciso, seguiva tutti i dettagli. Guardava a Sammy Davis, James Brown, Fred Astaire, Gene Kelly; non si faceva scappare niente. Così dovrebbero fare i professionisti. Fare attenzione a tutti gli elementi. È un’attitudine che devono avere – scoprire come funziona tutto. Curiosità. Sinastra lo faceva.
Ho un background da orchestratore. Avevamo tutto quello che ci serviva, e se mancava qualcosa, lo affittavamo, come il coro di Andraé Crouch in Man in the Mirror. Sono un tossico delle orchestrazioni. Vedo cosa manca. Se non c’è abbastanza supporto armonico per il basso, lo capisco. Magari dico a John Robinson, “Ho bisogno che tu mi dia una barra di drum break, così che la gente possa canticchiare”. Ho una sinestesia, vedo la musica prima di sentirla. È strano, ma funziona. Vedo dei colori, argento, viola…
La musica è un’architettura emozionale. La cosa principale è concentrarsi sull’amore, il rispetto e la fiducia. Se non lo fai, non succede niente. Deve essere reale – devi poter chiedere al tuo team di buttarsi nel burrone e loro devono fidarsi abbastanza per credere in quello che stai facendo.
Ho amato ogni momento in cui entravo in studio, ed erano molti. Stavamo spesso su per cinque giorni di fila, senza dormire, quando prendevamo il giro giusto. Portavano fuori gli ingegneri del suono in barella. Fumavo 180 sigarette al giorno. Ora ho smesso.
Come hai scelto i singoli di Bad?
È successo tutto senza che dovessi fare niente. Mi piace mettere tante buone canzoni sull’album da non riuscire a capire cosa far uscire per prima. È un lavoro emozionale. Approccio ogni canzone come se fosse l’ultimo amico di cui fidarsi. Sono molto esigente sulla scelta delle canzoni. Devi dare la giusta attenzione a ogni canzone. Tutto il nostro business si basa su quello. La canzone è la forza, l’artista è il messaggero. Una buona canzone può far diventare il peggior cantante del mondo una vera star. E una canzone cattiva non può essere salvata dai migliori cantanti al mondo. L’ho imparato anni fa, ed è giusto saperlo.
Se un produttore fa un disco, la sequenza è la cosa più importante, devi tenere ritmo per tutto il tempo. In 15 secondi, se non si appassiona, l’orecchio si addormenta. Vuole intrattenimento. È incredibile cosa colpisce di una canzone. Non ce ne sono molte al giorno d’oggi, ci sono tanti venditori di fumo. Ma mi piacciono Kendrick Lamar, the Weeknd e Drake.
Devi fare i compiti, allenare il cervello. Oggi specialmente, nessuno legge più la musica. Nessuno sa che cazzo succede. Non chiedono neanche gli spartiti. Suonano a orecchio. È figo, ovviamente, ma la musica deve essere suonata comunque a orecchio, non fa male sapere cosa stai facendo. Non ha fatto male a Herbie Hancock. O a Stevie Wonder. Ho conosciuto Stevie quando aveva 12. E Aretha quando aveva 12. E Michael. Se lo sanno fare a 12 anni, lo faranno sempre.
La gente non ha idea di cosa voglia dire produrre un disco. Cosa pensi che sia? È un duro lavoro. Devi prendere uno studio, un ingegnere, dei cantanti, una band, le canzoni, il ritmo, le tonalità. Non ti fermi mai. Devi fare da babysitter, sapere quando dire “fermiamoci” o “facciamone un’altra”. È diverso per ogni persona. E ho lavorato con tutti. Billie Holiday, Ella Fitzgerald, Sarah Vaughan. Ma in qualche modo è uguale per tutti. per Michael, capire cos’è giusto per lui e dargli il miglior sostegno che abbia mai avuto nella sua vita.
Non sai cosa succederà. È tutto nelle mani di Dio. Devi solo fare musica che ti da i brividi.
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