La psicosi delle 4.48 – l’ora che le statistiche indicano come la più adatta al suicidio – è diventata super-iconica dopo che Sarah Kane ci ha intitolato uno dei suoi drammi più belli e più celebri, prima di togliersi lei stessa la vita.
Un’altra giovane inglese, Kate Tempest (classe’85), con una dannazione che mutua l’autolesionismo in rabbia sociale, sposta di mezz’ora indietro le lancette (alle 4.18) per scrivere il suo poema corale, in cui sette personaggi della Londra contemporanea si ritrovano nelle rispettive case (con tutte le varianti di degrado e aspirazione al lusso) a contare “le pecore dei loro stupidi sbagli”, incapaci di prendere sonno, nonché di svegliarsi.
Persino l’alba di un nuovo giorno sembra un miraggio nel loro purgatorio notturno, popolato da demoni che non riescono a scrollarsi di dosso e schiacciati da un passato che “è un posto immenso”. Kate Tempest è diventata una voce potente della sua generazione (a volte con derive di sloganismo movimentista post-gentrificazione, che rischiano di ricordare i volantini delle associazioni di quartiere) e, quando si parla di lei, ci si meraviglia sempre che la poesia possa rivelarsi uno strumento così persuasivo e pop (i reading di Tempest riempiono sia i palchi dei teatri sia quelli dei festival musicali).
Il che fa sorridere, se pensiamo che un poema come Urlo di Allen Ginsberg continua a mietere accoliti e resta uno dei testi più citati al mondo (forse è perché le menti migliori di ogni generazione alla fine tendono ad assomigliarsi). Eppure sembra che a intervalli regolari bisogna stupirsi se la poesia “spacca”, o se i poeti non sono la caricatura risibile che tendiamo a farne: Leopardi tristissimi e fuori tempo massimo.
Ma il rovescio della medaglia è che se un poeta ha successo e si trasforma in un comunicatore, si corre il rischio che la sua opera venga sopravvalutata in maniera indiscriminata. È il caso di Tempest e del suo Let Them Eat Chaos, uscito sia come poema (da leggere ad alta voce, secondo le direttive), che come disco. E qui scatta l’altra forma di meraviglia, perché sì, si può essere insieme poeti, performer, rapper (come se non bastasse Tempest è anche romanziera e drammaturga), e cercare un flow che se ne infischia allegramente di auto-ghettizzarsi in un genere.
Il mio consiglio personale, se non conoscete Kate Tempest, è di vedervi soprattutto le sue performance dal vivo (va benissimo pure YouTube). Poi potete declamare ad alta voce Let Them Eat Chaos (meglio in inglese però, non per fare i puristi, ma in italiano il flow si perde) e sentirvi il suo primo album: Everybody Down.