«Ragazzi, capisco la curiosità, ma non voglio rovinare la sorpresa al pubblico con qualche spoiler di troppo. Su, fate i bravi». Ryan Gosling sghignazza sotto i baffetti biondi mentre dribbla divertito, e senza troppe difficoltà, le nostre domande sul sequel più atteso dell’anno. Siamo seduti attorno a un tavolo nella suite di un hotel di Barcellona, dove lo abbiamo raggiunto per parlare di Blade Runner 2049, il film diretto da Denis Villeneuve in sala dal 6 ottobre. Nonostante i nostri tentativi, capiamo in fretta che smuovere il 36enne attore canadese, candidato all’Oscar per Half Nelson e La La Land, è un’impresa impossibile. «Avete aspettato tanto per scoprire se Deckard (il personaggio interpretato da Harrison Ford, nda) sia un replicante: un paio di mesi in più non saranno mica la fine del mondo», e ride, sfilandosi la giacca di jeans per via del gran caldo.
Ma, quindi, Ryan ci sta forse dicendo che stavolta troveremo delle risposte ai dubbi sollevati dal cult di Ridley Scott? Lui alza un sopracciglio, unisce indice e pollice, e se li passa davanti alle labbra, da destra a sinistra, come a imitare una cerniera lampo. Ok, abbiamo capito.
Costato la bellezza di 185 milioni di dollari, Blade Runner 2049 è un progetto ambizioso, che arriva al cinema a distanza di 35 anni dall’originale. Era il 1982 e Scott, fresco del successo del primo Alien, aveva deciso di adattare per il grande schermo un romanzo di Philip K. Dick, Il cacciatore di androidi (poi ripubblicato come Ma gli androidi sognano pecore elettriche?, nda). Tra domande sul senso della vita, cacciatori di taglie e replicanti in fuga, sullo sfondo di una Los Angeles del futuro sovrappopolata e cupa, Blade Runner ha rivoluzionato per sempre il genere sci-fi, e influenzato più di una generazione di filmmaker. «Si trattava di un universo troppo vasto per essere contenuto in due ore di film. Ecco perché siamo qui: c’era ancora molto da raccontare», ci spiega Gosling, protagonista del sequel nei panni di K, agente di polizia nella Los Angeles del 2049.
Partiamo dal tuo primo giorno di riprese. Come è andata?
È stato strano: dopo settimane di conversazioni con il regista, mi ci è voluto un po’ per ambientarmi. Abbiamo lavorato per cinque mesi negli Origo Studios di Budapest. Denis voleva a tutti i costi che i set fossero reali: niente green screen, effetti speciali al minimo. È stato utile, mi ha aiutato a entrare più velocemente nel mood giusto. Ma il momento in cui mi sono davvero reso conto dell’enormità del progetto è stato un altro.
Quale?
Il giorno in cui Harrison Ford è arrivato sul set per la prima volta. Io stavo girando una scena sotto la pioggia, davanti ad un ologramma gigantesco di Joy (Ana de Armas, nda). Harrison mi guarda e scuote la testa: “È notte, piove di nuovo. E stavolta sei tu quello che si porta a casa la ragazza!”. Sono scoppiato a ridere. Averlo lì è stata un’illuminazione, mi sono detto: “Wow, è così: stiamo davvero facendo Blade Runner!”.
Com’è stato lavorare con lui?
Prima di conoscerlo ero il suo più grande fan, e adesso lo stimo ancora di più. Ha talento ed esperienza, una combinazione incredibile. Penso che sia un ottimo interprete e una icona del cinema: ecco perché tutti i suoi film sono grandiosi, e alcuni, come Star Wars e Indiana Jones, vengono rivisitati ancora oggi.
Ma è vero che ti ha dato un pugno?
Sì, per errore. Stavamo simulando un combattimento e mi ha colpito in piena faccia. Lui continua a ripetere che è stata colpa mia, perché in quel momento non avrei dovuto trovarmi in quella posizione.
Ti ha chiesto scusa, almeno?
Mi ha raggiunto nel camerino, e mi ha dato un bicchiere di scotch. Peccato che poi si sia portato via la bottiglia! (Ride)
Ci racconti chi è K?
È un Blade Runner, proprio come lo era stato Rick Deckard 30 anni prima. Ma, rispetto ad allora, le cose sono peggiorate: il mondo si è fatto più brutale e tossico, l’ecosistema è collassato. La gente cerca di sopravvivere, tra mille difficoltà.
Come è cambiato il lavoro dei Blade Runner?
È più complicato. Sono percepiti quasi come dei paria e vivono nell’ombra, isolati dal resto del mondo. Quando K entra in contatto con un mistero che potrebbe mettere in discussione non solo le cose che conosce, ma anche la sua stessa identità, si mette sulle tracce di Deckard, in cerca di risposte.
Com’è il rapporto tra loro due?
(Fa una pausa) Sto pensando al modo più semplice per descriverlo. Diciamo che c’è un po’ di… tensione tra K e Deckard. Questo è il massimo che posso dirti.
Cosa ti ha colpito della storia?
Il fatto che questi personaggi stiano cercando di trovare l’amore, di costruirsi delle relazioni, una qualche forma di felicità. Lo trovo commovente.
Che ricordi hai del primo capitolo?
Lo vidi per la prima volta a 14 anni, una decina di anni dopo l’uscita in sala. Sapevo che era una pietra miliare, e per me divenne una specie di ossessione: era il primo film che vedevo che si concludeva in un modo così ambiguo, sospeso.
Cosa significa fare parte del sequel?
È un onore. Essendo un fan sfegatato, non vedevo l’ora di scoprire come era cambiato quel mondo, i vari personaggi. La sceneggiatura di Michael Green e Hampton Fancher, già autore dello script del film di Ridley Scott, è eccezionale: porta avanti l’eredità e le storie che conosciamo, e, allo stesso tempo, introduce nuovi concetti. È travolgente.
Il primo film è stato profetico, per certi versi. Sarà così anche stavolta?
Sì. Tocchiamo un tema interessante, quello del nostro rapporto con la tecnologia: in un mondo sempre più grigio, gli esseri umani sono disconnessi dai loro simili, condannati alla solitudine. Se penso agli sviluppi nel campo dell’intelligenza artificiale, credo che ci stiamo addentrando in territori complicati e interessanti. Ma dovremmo porci alcune domande di tipo morale.
Per esempio?
Prendiamo le automobili, che un giorno saranno in grado di guidarsi da sole: in caso di incidenti verranno programmate per schiantarsi e uccidere il conducente di turno, o per andare a sbattere contro un’altra auto e vedere chi sopravvive? E siamo solo all’inizio.
La Los Angeles del 2049 è un posto cupo, inquinato, senza speranza. Secondo te è così che finiremo, se continuiamo a sfruttare le risorse del pianeta?
Beh, il film lancia anche un messaggio ambientalista. Da quando sono padre (ha due figlie: Esmeralda Amada, 3 anni, e Amada Lee, 1 e mezzo, avute dalla compagna, l’attrice Eva Mendes, ndr), ho iniziato a pensarci molto di più. Credo che sia inevitabile, quando si diventa genitori, riflettere sul mondo che lasciamo alle nuove generazioni. Di sicuro pagheremo un prezzo molto alto per non essere stati dei buoni custodi del nostro pianeta.
Sei pessimista?
Mi considero realista. Non credo che stiamo andando nella direzione giusta: non riusciamo nemmeno a metterci d’accordo rispetto alle misure da adottare sul cambiamento climatico.
Sei uno degi attori più richiesti a Hollywood. E quest’anno festeggi 24 anni di carriera.
Sognavo di fare questo mestiere già intorno ai sette anni. Mio zio era un imitatore di Elvis Presley: un giorno tornai a casa dopo scuola e lo trovai in salotto, intento a parlare come lui. Decise di mettere in piedi uno spettacolino, a cui partecipammo noi parenti. Mio padre faceva la guardia di sicurezza, mia madre cantava nel coro. Quel giorno compresi che potevo guadagnarmi da vivere facendo qualcosa di stimolante e originale.
Difficile bilanciare carriera e famiglia, in questa fase della tua vita?
Per quanto ami il mio lavoro, occuparmi dei miei cari è la priorità. Ma non potrei mai portare avanti i progetti a cui tengo senza il sostegno di Eva, che si occupa delle bambine quando sono via per lavoro (a gennaio, ritirando il Golden Globe come miglior attore, l’ha ringraziata pubblicamente, nda). Sono un uomo fortunato.
Hai appena creato una tua casa di produzione, Arcana. Che progetti hai?
Il primo film come produttore: si intitola The Favourite, e sarà diretto da Yorgos Lanthimos. Come attore, invece, interpreterò l’astronauta Neil Armstrong nel biopic First Man, basato sulla biografia scritta da James Hansen. Le riprese inizieranno a fine anno, perciò ora mi sto divertento a fare un mucchio di ricerche. Sono eccitato, sia perché si tratta di una storia incredibilmente affascinante, sia perché torno a lavorare con Damien Chazelle, il regista di La La Land. Uscirà a ottobre 2018. Non vedo l’ora!