A leggere, distrattamente, le uscite, difficilmente potevamo aspettarcelo. Eppure siamo in presenza di un fine settimana in cui è difficile trovare una delusione in sala. Tanti generi, ma un filo rosso c’è: la donna, la femminilità trattate con delicatezza e spudorato coraggio.
Una donna fantastica: 8,5
Se uno dei registi più interessanti del panorama internazionale, Sebastian Lelio, viene prodotto dal miglior cineasta attivo e vivente, Pablo Larrain, il film che ne esce fuori non può che essere speciale. Un gioiello incastonato nel talento e nel coraggio di raccontare una transgender nei suoi sentimenti più puri e nelle sue prove più dure. Una donna, Marina Vidal (la splendida Daniela Vega, che potrebbe essere la prima transgender a essere nominata e magari a vincere l’Oscar), vede la vita fuggire via dal suo amore, vero ma clandestino, Orlando (Francisco Reyes). Inizia il calvario peggiore, per un innamorato: trovare, negli altri, un muro, l’impossibilità di vivere il proprio lutto, di salutare chi si è amato. Glielo proibisce la moglie di lui, per la sua identità e non per gelosia, sporca tutto il resto la “gente” e il “sistema” che in lei non vedono il nitore di un sentimento semplice e commovente ma il sospetto di una morte sbagliata, perché chi è come lei non può che fare del male, perché chi esce fuori da convenzioni e ciò che è considerato normale è sempre, per la maggioranza, pericoloso. Lelio racconta una storia d’amore e di piccolezze con una sceneggiatura lineare e potente e immagini laceranti e (po)etiche: il vento, uno specchio, Natural Woman di Carole King, uno sguardo, tutto compone un puzzle emotivo e creativo di inusitata forza. E Marina ne è l’amazzone, donna splendida e fiera, sempre a testa alta. Perché se cammina controvento non è per guardare giù.
It: 8
Intendiamoci, smettiamola di fare paragoni. Anche se il titolo è lo stesso, anche se la maschera è quella – molto più “perfetta” e quindi meno paurosa -, anche se tutto richiama all’originale. Smettiamola di ritenere intoccabile ciò che ha formato il nostro immaginario. Villeneuve ci ha dimostrato con Blade Runner 2049 che si poteva fare un film altro senza tradire l’originale e così fa Andrés Muschietti, apprezzato per La madre con Jessica Chastain quattro anni fa e che ora, più artigiano che artista, mette mani al mito kinghiano di Pennywise, divenuto cult con il film tv It, in due puntate, diretto da Tommy Lee Wallace e con protagonista Tim Curry. E non si scotta. Certo, siamo altrove: narrativamente si sterza verso un sentiero più rassicurante e meno inquietante, nello spirito siamo più dalle parti dei Goonies, come ha argutamente sottolineato Roberto Recchioni, piuttosto che da quelle dell’originale. Allora avevamo di fatto due film per due piste temporali diverse e in qualche modo parallele, qui una sola unità di racconto, con ciò che ne comporta. Allora, noi vestali di It, eravamo preadolescenti e terrorizzabili, ora siamo adulti e disincantati. Ma l’opera è da una parte un inno all’adolescenza vista come la crudele ed esaltante prova de I ragazzi della via Paal e da un’altra un tributo a ciò che è stato e ciò che è (da qui l’omaggio, anche nel cast, a Stranger Things, che all’It originale deve molto, se non troppo). Il casting è perfetto, da Sophia Lillis – giovane donna in divenire, la cui identità si costruisce nell’azione e nel dolore – a Bill Skarsgård: la sua voce, in originale, grattata e disneyana quanto la precedente era giocosa e imprevedibilmente inquietante. Siamo diversi, siamo in un altro mondo: It, oggi, sarebbe questo. E’ questo. Muschietti lo ha capito e ha confezionato il tributo migliore, attraendo gli adolescenti di oggi e non allontanando quelli di ieri. Un mezzo miracolo, diciamocelo.
Nemesi: 7,5
Viva Walter Hill, che a 75 sembra averne 50 in meno e si gode un soggetto cormaniano come se fosse un esordiente. E lo maneggia con incoscienza e fantasia, con ritmi serrati e inventiva, prendendosi rischi e superando gli ostacoli, saltandoli a pié pari. Non che il cineasta di Driver l’imprendibile e I guerrieri della notte abbia mai fatto altrimenti, ma qui si supera con la storia di un killer divenuto donna (ancora identità sessuali ibride e sofferenza), con tutto il carico di trasgressione narrativa e interpretativa necessaria a non rendere una farsa un’idea geniale ma scivolosa. Ci riesce grazie alla sua visione, che mescola intrattenimento e la capacità di armonizzare montaggio e fotografia come pochi altri, giocandosi dialoghi e inquadrature spesso in controtempo. Ci riesce perché Michelle Rodriguez, sempre sottovalutata perché dedita, per lineamenti e indole, al genere e al cinema di serie B, è straordinaria per carisma e capacità di indossare i panni di chi è nel corpo sbagliato, alfieri di una metrosessualità modernissima e anticonvenzionale, sexy nel suo essere consapevolmente doppia. Inutile dire di Sigourney Weaver, icona androgina capace, qui, di tenere le fila di un’opera che potrebbe sfuggire di mano all’inquieto Hill, mad doctor che agisce spudorata sullo stereotipo per cavalcarlo.
Aver voglia di essere così politicamente scorretti, sessualmente alternativi, cinematograficamente smarginati è un regalo che solo questo regista, anche in un età di nonno, può e sa farci. Che generazione la sua (pensate a Friedkin, per dire).
Brutti e Cattivi: 6,5
A proposito di rischi, ve lo diciamo subito: il lungometraggio di Cosimo Gomez ha tante imperfezioni quante sono le ottime intuizioni, è eccessivo e strabordante, è involuto in alcune soluzioni di sceneggiatura, perché troppo acrobatiche, così come è innamorato di altre visive, belle quanto, a volte, pleonastiche. Eppure. Eppure è un esordio brillante, selvaggio, scorretto di un cineasta che ha talento e visione da vendere, è un’opera che quando sbaglia lo fa per vitalità, voglia di andare oltre e altrove, non accontentarsi. E allora viva il cinema italiano che trova l’imperfezione laddove rischia e vuole tutto. Ci piace, ne perdoniamo le esagerazioni, una prima parte a volte troppo innamorata degli schemi dell’heist movie e suddita della divertente e riuscita presentazione dei personaggi o della seconda alla ricerca continua del fuoco d’artificio. Viva Cosimo Gomez che si diverte con i suoi attori – e loro con lui -, che dà a Claudio Santamaria un uomo incompiuto più nell’anima che nel corpo privo di gambe e a Marco D’Amore l’unica strada per lavarsi da dosso l’ingombrante ruolo di Gomorra, sotto una pioggia di capelli rasta e un personaggio chiamato “il merda”. Viva la sensualità di Sara Serraiocco, la nostra Natalie Portman, scricciolo che dentro ha qualità recitative fuori dal comune, capace di far vibrare il corpo come uno strumento e di incarnare ruoli diversi e estremi con naturalezza, fino a sorprenderti con quello sguardo che ti nega il lieto fine, la pacificazione, in cambi di registro emotivo e interpretativo che ti spiazzano. Viva un casting beffardo che porta sullo schermo il mitico Simoncino (cercatelo su Youtube), viva la costumista che si sbizzarrisce, viva quelle scenografie alienanti nel reinventare visivamente anche ciò che conosciamo. Brutti e Cattivi è uno di quegli esordi che vorremmo sempre vedere, di quelli che ti dicono che il meglio deve ancora venire e che sì, essere belli e cattivi si può, ridendo della disabilità perché così, rendendo dei mutilati e degli emarginati antieroi, gli si dà la dignità che la pietosa accondiscendenza spesso nega loro. Possono essere bad boys, anche con un corpo diverso. Possono, devono essere tutto.
La battaglia dei sessi: 5,5
Ancora una donna, in questo caso famosissima, Billie Jean King, campionessa di tennis e femminista in lotta per la parità delle atlete nei guadagni delle tenniste professioniste, in lotta con la sua identità sessuale. Ancora un’attrice eccezionale, Emma Stone, che con un lavoro sulla voce e sul portamento restituisce perfettamente quel mito sportivo ma anche la donna di provincia che si emancipa da tutto e tutti. Peccato però che il doppiaggio italiano, qui disastroso, con lei compia il delitto più grande, appiattendo tutte le sfaccettature fonetiche della sua interpretazione. Lo fa anche con Steve Carrell, ma il suo Bobby Riggs, cialtrone impenitente, ha meno note da suonare. Il film è godibile, intendiamoci, la storia – una sfida donna-uomo che diventa simbolo di una lotta di genere e quindi anche il centro di pressioni feroci e meschine – è di quelle che si “devono” sapere. Ma La battaglia dei sessi è anche più schematico e lineare di un campo da tennis, più prevedibile di una sfida tra pallettari, tipo quelle tra Courier e Muster, più scontato di un ace di Ivanisevic. Prende il genere del biopic, lo mixa con quello del cinema sui diritti civili e ne tira fuori un ritratto edificante dell’eroina femminista e squallido dei maschiacci cattivi e rinuncia alla profondità per l’agilità del racconto. Un’opera che potevamo vedere, identica, già 40 anni fa. E che non ti sorprende mai. Eppure c’era materiale: dall’amica di Billy Jean, Marilyn (brava Andrea Riseroborough), centro emotivo di gravità permanente della campionessa e motore del suo cambiamento, ai demoni di Riggs, ex campione divenuto fenomeno da baraccone, fino all’impatto della partita tra i due che vide, nella realtà, vincere lei (negli altri due incontri, Riggs-Court prima e Connors-Navratilova poi, prevalsero gli uomini), sulla società, nelle case di uomini e donne, nei bar e nelle camere da letto. Tutto qui invece è didascalico, rassicurante, giusto. E invece, in quella storia, con la s maiuscola e minuscola, c’era tanto di più.