Se sentite qualche distributore italiano lamentarsi degli incassi, ricordategli questo fine settimana. Sedici (16!) uscite in sala sono una strategia demenziale, soprattutto perché l’85% sono film indipendenti condannati a schiantarsi contro un blockbuster e un franchise che è usato sicuro.
We are X: 8
Rock giapponese, un documentario che sembra un manga, una storia di musica, psicosi, vite e note estreme. We are X (che non è il bel WAX di Lorenzo Corvino, nella cinquina degli esordienti alla scorsa edizione dei David di Donatello, l’omonimia in questa storia torna spesso) è il racconto delll’incredibile avventura di una band conosciuta come X Japan – per non confondersi con gli X di Los Angeles -, famosissimi in patria e sconosciuti a molti, ma non a tutti, fuori. Non erano noti a Stephen Kijak, uno che al cinema ha portato un documentario sui Backstreet Boys e che gli X Japan li ha scoperti quando ha saputo di dover e voler fare il film. Forse per questo coglie l’essenza di un percorso artistico, esistenziale e psicologico unico ed entusiasmante, lacerante e doloroso. Un suicidio di una colonna del gruppo, una setta che ne “rapisce” un altro, una musica che sembra mettere insieme Metallica, AC/DC, ma pure un po’ di David Sylvian e spruzzate di prog rock con cavalcate epiche tra corde e percussioni, una voce potente e quasi ancestrale, il kitsch sempre dietro l’angolo e tappeti musicali e canori simili alle sigle dell’ultimo Kenshiro. Lo stile di ripresa e di montaggio è armonico alle montagne russe che vediamo e viviamo in ogni minuto di un film che ci fa capire perché i Kiss sono pazzi degli X (Gene Simmons dice nel film che “se fossero nati in America sarebbero i migliori del mondo”) e che gli avambracci incrociati di un noto talent musicale vengono da una galassia artistica molto molto lontana. Questa. Kijak cavalca un toro indomabile, ne intuisce ogni venatura di follia e genio, ci accompagna con il nostro stesso stupore ammirato all’interno di un racconto incredibile. E quel batterista e pianista che nonostante una malattia debilitante si massacra a ogni live come se fosse l’ultimo è l’anima della band, del film e del rock. Un miracolo di volontà e passione, di talento e esagerazione. Come questo documentario, senza mezze misure.
Mazinga Z Infinity: 7,5
Il Sol levante dell’avvenire, questo ci salva in una settimanaccia. Gō Nagai dovrebbero divinizzarlo, ma in attesa che accada godiamoci questo Mazinga Z Infinity che è celebrazione ed evoluzione dell’icona e del tessuto narrativo e culturale nato 45 anni fa. Mazinga è filosofia, fisica, etica. E anche estetica, qui ancorata alla tradizione con la CGI a dare fluidità ai movimenti, soprattutto in battaglia, ed epica ai totali più complessi e affascinanti (come il Mazin ritrovato). Junji Shimizu bilancia perfettamente gli elementi affatto banali di questo racconto che si colloca 10 anni dopo l’universo conosciuto dei nostri eroi e della battaglia per la salvezza della terra più conosciuta del nostro robot preferito, riesce allo stesso tempo a percorrere il sentiero del reboot e del sequel, di una rinascita e di una continuity che sono saldamente ancorate al lungometraggio in ogni momento. Ovviamente il livello della narrazione è alto ma capace di tenere un piano di lettura anche immediato, d’azione pura, di emotività elementare, cosicché il pubblico più giovane possa farsi solo sfiorare dalla sfida etico-filosofica del Dottor Inferno e del suo giorno del giudizio di un mondo incapace di accordarsi di fronte a un’offerta di “prosperità” e di Koji Kabuto, eroe intellettuale, diviso tra il demone del guerriero che lo infiamma e il mito, il dio della pace per cui ha sempre combattuto. E Lisa, umana, macchina ma anche un po’ dea (ex machina, soprattutto nella dimensione degli universi paralleli), è la sintesi dei due e forse nell’apice del loro duello con l’energia fotonica a far da arma finale, risponde a tutti con quella dell’empatia suprema. Rimane poi l’anima giocosa e goliardica, emotiva e cameratesca, divertita nel tratto e nelle battute dei personaggi. Era difficile tornare al grande Mazinga. Ma la missione è perfettamente riuscita.
Il mio Godard: 7
A 50 anni e dopo un Oscar, forse abbiamo capito la natura profonda di un cineasta come Michel Hazanavicius, che ci ha sempre lasciato il dubbio di essere il più sopravvalutato dei sottovalutati, o viceversa. Scherzi a parte, ancora non è chiaro se sia un maestro o un raffinatissimo bluff, ma di certo abbiamo capito, dopo Il mio Godard, che è un dissacratore innamorato. Con la Warner Bros (l’esordio tv La classe américaine), i fumetti – agli inizi fu Lucky Luke, da sceneggiatore -, i film di spie – il geniale e divertentissimo OSS 117 Le Caire, nid d’espions -, col melò in bianco e nero, con il furbissimo e riuscito The Artist. Se in The Search ha forse provato una strada autonoma, per il resto della sua cinematografia è entrato dentro i miti, le icone, le epoche, i generi e gli schemi visivi e narrativi e li ha copiati, trasformati, usati spregiudicatamente, a volte “violentati” e non di rado, appunto, dissacrati. Una sorta di Warhol capace di essere fedele al modello, tradendolo a ogni istante. Ed è così che racconta Godard, il mito in declino, con una ferocia affettuosa, affibbiandogli il sempre imbronciassimo Garrel e rubacchiando stilemi, frasi e visioni, parodiandone persino lo sguardo, raccontandone il massimalismo politico ed artistico così come l’inadeguatezza emotiva, attraverso l’incantevole Stacy Martin nei panni della recentemente scomparsa Anne Wiazemsky, compagna di vita e protagonista de La cinese (l’implosione del cinema godardiano). Sceglie, Hazanavicius, di raccontarlo con gli occhi della sua musa, privandosi della propria (Berenice Bejo), che qui ha un ruolo da comprimaria di lusso. Ne esce fuori un melodramma sbilenco, di quelli che il cineasta svizzero d’adozione e di origine odierebbe per etica ed estetica, un romanzo d’appendice ma anche un biopic cinestorico di alto livello, uno strano oggetto cinematografico che si diverte con lo spettatore parlandogli e abusando divertito del dialogo con lui e dello sguardo in camera (la dissertazione sul nudo al cinema e sugli attori è geniale). Non è un caso che Bertolucci e Ferreri – e l’Italia, in generale – siano maschere, e Truffaut, alleato e rivale, venga solo evocato frettolosamente. Godard è un testimone scomodo e altissimo del suo tempo, è un genio che ha rivoluzionato il cinema e che della rivoluzione si è reso vittima consapevole. E’ un sole accecante accecato dal sol dell’avvenire, un borghese che amava i proletari e gli studenti, non o mal ricambiato, come gli ricorda Bernardo. Uno che avrebbe sempre voluto essere in sintonia con il mondo, ma ha scelto Il disprezzo – forse la sua opera più potente – verso gli altri e verso sé. Hazanavicius non poteva né voleva cercare Godard, inafferrabile per Jean-Luc stesso, è si è accontentato, con acume, della godardìa e dei godardismi. E tra qualche imperfezione, ha fatto centro.
Gli asteroidi: 6,5
C’è un cinema italiano piccolo e indipendente (quello dei Rä di Martino, per dire) che ha una libertà di pensiero e di realizzazione, una originalità di scrittura, uno sguardo altro, che ti fa soprassedere su smarginature, imperfezioni, errori. Perché capisci che è così che vogliono raccontare, slegati dai conformismi e sperimentando, senza una grammatica che diventi calligrafia. Gli Asteroidi di Germano Maccioni è così, con tre ragazzi che sembrano usciti da un film belga, una provincia italiana che guarda a Farina, Ferrario ma anche all’indie americano, una storia di padri (assenti, di testa o di corpo) e figli eterna eppure diversa. Gli Asteroidi ha eccessi nella recitazione, dialoghi e battute non sempre centrate, inquadrature non sempre armoniche. Ma anche un montaggio di alto livello, facce giuste e inaspettate (Cosmic su tutti), una fotografia sorprendente, una storia e un soggetto che hanno delicatezza e profondità. E una regia mai fifona, capace e curiosa, anche quando va fuori strada. E fuori campo. Insomma Maccioni si sbrighi a fare il prossimo film, che i suoi margini di miglioramento sono ampi come i suoi orizzonti di visione e il suo talento.
Geostorm: 6
Vorremo scrivere un piccolo saggio sui film catastrofisti, su Gerard Butler che ha avuto una carriera assurda al limite del grottesco, su quanto la politica e l’ambientalismo ormai siano parte integrante di questo genere (Emmerich insegna). Ma la verità è che Geostorm è quel disaster movie che non tradisce mai, una meravigliosa baracconata fracassona che mantiene quanto promette, ovvero un’opera di intrattenimento pura con Butler nei panni di uno scienziato. Ovviamente farà il cow-boy tutto il tempo e di formule scientifiche da lui non ne sentiremo. Quindi alla fine, di sabato sera, in una comitiva di più di 20 persone, è il film su cui rischiate meno litigi. Certo, ne abbiamo visti a bizzeffe e dopo 195 secondi potrete recitare il resto della trama con margini di errore minimi. Ma se è in atto un corteggiamento con il vostro vicino di poltrona, è fatta.
Mr. Ove: 5+
Un vecchio scorbutico (59 anni, si vede che gli svedesi hanno un sistema previdenziale migliore del nostro), una giovane e bella ragazza iraniana, dei bimbi vispi e intelligenti. Il Sistema contro le persone normali, la società che non capisce i diversi. Non è Gran Torino e nemmeno I, Daniel Blake nei loro remake scandinavi, è l’ennesima variazione sul tema “anziano insopportabile incontra una vicina di casa bella che potrebbe essere sua figlia con dei bimbi che potrebbero essere suoi nipoti e si scopre eroicamente buono”. Peccato che Mr. Ove è cattivo e politicamente scorretto come può essere uno svedese: conduce dispoticamente una sorta di villaggio che lo defenestra democraticamente, se la prende con la burocrazia svedese che si ostina a proteggere un proprio cittadino (questo stato sociale invadente!), a un certo punto ospita un gay e diventa simpatico appena gli fanno un sorriso. Certo, si comporta da psicotico quando gli toccano il giardino, ma capirete che la tensione drammatica e comica, con un personaggio così non sale mai. Inoltre la regia di Hannes Holm è scolastica e si abbevera alla commedia umana e surreale di quelle parti e al genere con didascalica e geometrica applicazione, lo script è lineare e spesso piatto e alla fine a rubare l’occhio è solo il cast femminile.
Una questione privata: 4,5
Ogni volta che dai i Taviani per finiti, poi ti tirano fuori opere come Cesare deve morire e capisci che quell’entusiasmo gentile, quel nitore emotivo ed estetico che a volte rasenta l’ingenuità (altre la prendono in pieno), ha qualcosa che sa trascinarti altrove. Il punto è che l’impeto de L’uomo da bruciare o la compiutezza e l’epica contadina de La notte di San Lorenzo sono ormai un lontano ricordo e che da quest’ultimo film, del 1982, quel loro racconto umano e cinematografico si è appannato inesorabilmente. Era una buona occasione l’incontro con Beppe Fenoglio, dalla poetica simile a quella dei fratelli di San Miniato, così come il triangolo Marinelli-Richelmy-Bellé, facce giuste su talenti adeguati. E se il Milton di Luca Marinelli riesce a rimanere in piedi per carisma e bravura dell’interprete, se Richelmy porta a casa il suo personaggio scritto maluccio con caparbietà e fascino, è Valentina Bellé, che già abbiamo apprezzato ne Il permesso (e non solo), a scontare, vittima incolpevole, una parte che balla tra lo stereotipo e il non credibile, nonostante il suo impegno e la capacità di catturare la camera. Costumi, scenografia, fisionomie dei protagonisti, tutto sembra adatto a un racconto che però non esce mai dai binari, non sa mai farti sentire paura, polvere, rabbia, passione. In una parola, la guerra. Rimane un quadro freddo, come quell’Over the Rainbow che diventa solo maldestra citazione e forse poco riuscita metafora. Peccato, perché una guerra è sempre Una questione privata e solo i Taviani (di 35 anni fa, però) avrebbero saputo raccontarlo al meglio.
Saw Legacy: 3,5
Ho fatto un sogno. I registi di tutti i Saw, tranne James Wan, coinvolti in un gioco di John Kramer, il famigerato Jigsaw. Sì, lo ammetto, ho sognato di vedere i fratelli Spierig, i colpevoli di quest’ultimo capitolo, torturati. Insieme agli altri e forse pure un po’ più degli altri. Perché i predecessori hanno avuto sempre la voglia di cercare l’intuizione, di spingere sul gore, di costruire enigmi complessi quanto le trappole morali pensate per giustiziare coloro che non hanno pagato fino ad allora colpe inconfessate e inconfessabili. Ma un capitolo così noioso come questo non c’era mai stato: nessuna tensione, morti banali, mutilazioni e affini sono così pudiche e pulite da sembrare uno spot per cerotti per bambini, la trama è insopportabile e irritante nella sua banalità. E in più, ecco che arriva il predicozzo finale, una sorta di benedizione all’antieroe con un moralismo d’accatto che sembra preso di peso dalle nostre campagne elettorale. Non basta l’ultimo pirotecnico decesso: arriva troppo tardi. Pensateci: Saw-Director’s cuts. Dove non parliamo di tagli di montaggio. Sarebbe bellissimo, lo snuff movie che abbiamo sempre sognato.
Non c’è campo: 1,5
Federico Moccia alla prese con degli adolescenti che vivono la tragedia peggiore per una comitiva: finire in una vacanza in cui gli smartphone non prendono. Non è una parodia. Basta come recensione? No, ma dovrebbe. Perché Moccia, passando gli anni, all’adesione a una visione piatta e stereotipata dei giovani – decisamente migliori rispetto alla generazione di chi scrive o di quella del regista stesso -, ora aggiunge un (pre)giudizio fastidioso. E non lo maschera, anzi lo acuisce con la contrapposizione smartphone-borgo antico del salento, social-ospitalità della provincia, like e chat contro amori veri. Roba che neanche la vecchia nonna con “ai miei tempi”, Non c’è campo è un “Signora mia 2.0” di chi dei giovani, ormai, capisce poco. Se prima li portava tre metri sopra il cielo, ora li costringe in categorie artificiose, con una fotografia che sembra un film del sabato pomeriggio di canale 5 (ricordate quelli, stucchevoli e sdolcinati, degli anni ’80 e ’90?), il tutto condito con le storie parallele degli adulti che sono confinate a schemi ancora più irritanti. Un esempio? L’artista che fa i predicozzi sul conoscere se stessi, uno stereotipo per la milf annoiata più scontato di un idraulico nel porno. Dispiace per gli ottimi attori coinvolti (Fortuna, Potenza, Tognazzi e anche Incontrada) e che pure fanno quel che possono, ma Moccia non si è neanche accorto che nel frattempo il suo lavoro lo fa molto meglio Violetta.